Il dottore dei libri

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Claudio Pizzin

2 Agosto 2021
Reading Time: 4 minutes

Andrea Vitali

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Scrittura e medicina si intrecciano senza soluzione di continuità nella vita di Andrea Vitali.

Fin da quando, liceale, dovette mettere da parte la sua passione per il giornalismo per iscriversi alla Facoltà di Medicina, come da volontà del padre. Una professione esercitata ufficialmente fino al 2014, sebbene già dal 1990 i lettori hanno imparato a conoscerlo nella sua veste di scrittore. Nella sua amata Bellano, sponda lecchese del Lago di Como, la pandemia però lo ha rimesso in attività su tutti i fronti. E così mentre il suo libro Vivida Mon Amour edito da Stile Libero Einaudi giungeva in libreria, lui si è messo a disposizione per la campagna vaccinale.

Andrea Vitali, partiamo dall’attualità: da medico come vive questo tempo di pandemia?

«Direi da volontario in quanto mi sono prestato a dare una mano soprattutto a un collega sia in ambulatorio sia sul territorio, prima in occasione della campagna anti influenzale e ora per quella vaccinale».

E da scrittore, invece?

«Scrivendo parecchi racconti legati in qualche modo alla pandemia ma non direttamente alla malattia. Sono stati pubblicati su un settimanale del Canton Ticino il Caffè, altri sono diventati un piccolo libro pubblicato dalle edizioni del Sole 24 ore con gli interventi di Nicoletta Carbone, un neurochirurgo e una psicologa».

Nel romanzo Biglietto, signorina lei cita Villa Vicentina: come mai?

«Ci ho fatto il militare, motivo per cui, sbagliando l’indicazione geografica, l’ho citata».

Qual è il suo rapporto con il Friuli Venezia Giulia?

«Ottimo. In tempi pre pandemici l’ho frequentato parecchio grazie ai numerosi inviti di librerie e biblioteche. Rivedo sempre con emozione le sue infinite distese ma soprattutto la cosa che mi emoziona di più sono i suoi cieli infiniti densi di suggestioni, quegli stessi cieli che guardavo spesso quand’ero militare per trovarci lo stesso azzurro dell’acqua di lago».

All’epoca del suo servizio di leva com’erano questi luoghi?

«Direi abbastanza spopolati o, meglio, popolati perlopiù da residenti in divisa e di passaggio. Ho ben presente lo sconcerto al mio arrivo, nella piccola stazione oltre la quale non si vedevano altro che campi coltivati, così da chiedersi dove fosse la caserma, dove fosse il paese».

Quando ci è ritornato, anni dopo, come li ha ritrovati?

«Ci sono passato un paio di volte rendendomi conto che, rispetto agli anni Ottanta, sono profondamente cambiati. A parte la caserma messa in pensione, ho avuto l’impressione di una notevole “modernizzazione” del luogo al punto che, a distanza di tanti anni, mi è stato difficile riconoscerlo. Riguardo alle conoscenze non ne strinsi allora, cosa che mi ha ovviamente impedito di mantenerle nel tempo».

Cosa significa per lei la scrittura?

«Scrivere è sempre stato per me un modo per comunicare: me ne sono convinto grazie alla lettura dei grandi narratori, tanti italiani soprattutto, che mi hanno formato attorno all’idea che raccontando le loro storie raccontano esperienze di vita altrimenti difficili da conoscere».

Attraverso i suoi romanzi quali messaggi desidera veicolare?

«Non ho mai avuto l’ambizione di seminare messaggi tra le mie righe. Semmai dovessi però indicarne uno, direi che l’astenersi dal giudizio sugli altri è ciò che prevale quando racconto la storia di questo o di quella. Perché conoscere a fondo una persona, la sua vita, è ben difficile, la trappola è quella di giudicare basandosi su aspetti di superficie che a volte nascondono ben altro».

Tra i suoi numerosi libri a quale è più legato?

«Pianoforte vendesi, senza dubbio; perché in quella storia mi sembra di aver trovato la fusione ideale tra il mio essere adulto con un’anima ancora infantile, magica, che non vuole morire. E anche perché è una sintesi tra un momento di vita in cui il sacro e il pagano vanno a braccetto e si completano».

In che modo sceglie le storie e i personaggi da narrare?

«Viene prima l’idea di una storia, anche solo un’ideuzza, a partire dalla quale, senza alcuna scaletta, comincio a scrivere. Circa i personaggi, a parte quelli indispensabili per partire, non pongo limiti alle sorprese del quotidiano, ben sapendo che in corso d’opera nascono situazioni nuove che necessitano di altrettanto nuovi personaggi inimmaginabili all’inizio».

Tra i tanti premi che lei ha vinto in carriera, c’è anche quello intitolato a Piero Chiara. Nei suoi testi emerge un’affinità con questo autore: come mai?

«Le affinità si ritrovano nell’ambiente geografico, nella terra, nel piccolo luogo dove entrambi siamo nati, un luogo che a tutta prima sembra non riservare sorprese. E che invece, vissuto con la pazienza necessaria, dimostra di essere una sorta di concentrato di ciò che si intende per mondo. Poi subentra la curiosità di grattare la superficie, soffiare, come diceva Chiara, la cenere sotto la quale arde il fuoco».

A proposito di affinità, ce ne sono tra il Friuli e la sua terra lombarda del Lago di Como?

«Credo che soprattutto ci unisca un forte senso di appartenenza alla terra nella quale siamo nati e anche il   fatto di stare in una condizione periferica, il che ci permette di guardare da una certa distanza ciò che succede nel mondo e grazie a essa non farci travolgere. È una sorta di atavica pazienza che ci consente di apprezzare ciò che abbiamo, ci preserva da certe dannose vanità, ci tiene coi piedi ben saldi per terra lasciando però libera la fantasia di volare altrove».

Chiudiamo tornando alla scrittura: nonostante il periodo intenso, Andrea Vitali resta un autore prolifico…

«Dopo l’uscita di Vivida Mon Amour, storia di un corteggiamento denso di colpi di scena divertenti, è in libreria, pubblicato da Garzanti, il ritorno sulle scene del maresciallo Maccadò. Sperando siano di buon auspicio per il futuro».

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