4 marzo 1861: a Palermo, il piroscafo ‘Ercole’ parte alla volta di Napoli. A bordo ci sono oltre ottanta persone: fra loro, lo scrittore Ippolito Nievo, tesoriere della Spedizione dei Mille, in viaggio verso Torino per dare la sua versione dei fatti sull’impresa, soggetta alle calunnie dell’ala ostile a Garibaldi. Ma nelle prime ore del 5 marzo, il piroscafo scompare per sempre. Nessun relitto, nessuna traccia, nessun superstite: una storia che lascia interrogativi inquietanti. Per capirne di più, occorre ricostruire l’intera, straordinaria vita di Nievo. A partire dal suo legame strettissimo con il Friuli.
La formazione alla politica
Ippolito Nievo nasce a Padova il 30/11/1831, dal nobile mantovano Antonio e da Adele Marin, erede per via materna del casato friulano dei Colloredo, proprietari del celebre castello. La sua infanzia si divide fra Padova, Soave, Udine (dove frequenta le elementari) e Verona, mentre nel ‘47 gli studi liceali lo portano nelle proprietà familiari di Mantova, Sabbioneta e Fossato di Rodigo. Finché, nel ‘48, il fuoco dei patriottismi divampa in tutta Europa: il 17 marzo, a Venezia, Daniele Manin e Niccolò Tommaseo guidano una vittoriosa insurrezione contro gli Austriaci; il giorno dopo, a Milano, iniziano le leggendarie ‘Cinque Giornate’. Il 23, Carlo Alberto di Savoia ne approfitta e dichiara guerra all’Austria: ma dopo i primi successi, il 25 luglio il sogno dell’Unità d’Italia s’infrange a Custoza, con la pesante sconfitta piemontese.
Nello stesso giorno, Nievo è a Cremona per gli esami scolastici, che però – annota – vengono «improvvisati» per le «trepidazioni della nostra tragica ritirata»: l’esercito sabaudo, infatti, retrocede a Vigevano, dove firma una tregua con il nemico.
Inizia così, per il sedicenne Nievo, la formazione alla politica, che lo porta in Toscana all’inizio del ‘49 per intrufolarsi negli ambienti rivoluzionari. Là si combatte ancora e Roma sembra a un passo, e pare quasi di sentire Mazzini che annuncia, il 24 febbraio, la caduta del papato: ma la parentesi della Repubblica Romana verrà chiusa il 3 luglio dalle cannonate francesi. E il 2 agosto, dopo un’eroica resistenza antiaustriaca, crollerà anche Venezia.
Fra giornalismo e letteratura
Nel ‘50 Nievo si iscrive a Legge all’Università di Pavia, quindi a Padova, dove si laurea nel ‘55. In città frequenta il Caffè Pedrocchi, cenacolo di patrioti e intellettuali: inizia fra quei tavoli la passione per il giornalismo. Esordisce con due polemiche roventi contro il direttore filoaustriaco de La Sferza Luigi Mazzoldi, di cui attacca, sul suo stesso giornale, le posizioni antisemite e le parole di spregio nei confronti degli studenti padovani. Lungimirante e acutissimo, non esita a firmarsi con pseudonimi femminili per affermare l’emancipazione della donna su riviste come Le ore casalinghe e La ricamatrice, mentre su L’annotatore friulano del 4/11/1858 recensisce un trattato di agronomia a vantaggio dei contadini, poiché «il disagio del volgo campagnuolo è sì grande da rimanere impedita ad esso ogni educazione intellettuale».
Una tesi che Nievo illustra in Rivoluzione politica e rivoluzione nazionale, sostenendo che non può esservi alcun Risorgimento senza la partecipazione delle masse rurali: «Prima condizione per ottener ciò è l’educazione. Prima condizione per render l’educazione possibile è l’alleviamento della miseria e il retto soddisfacimento dei bisogni. Migliorate adunque subito fi n che c’è tempo la condizione materiale del volgo rurale se volete avere un’Italia».
È con questa sensibilità che pubblica sui giornali i suoi racconti, nel progetto – mai realizzato – di raccoglierli in un libro unitario: il Novelliere campagnuolo. Ne è parte fondamentale Il Varmo, uscito su L’annotatore friulano nel ‘56 e ambientato fra il mulino di Glaunicco, proprietà di Mastro Simone, e quello di Ser Giorgio a Gradiscutta: fatti e personaggi inventati, ma luoghi reali e tuttora esistenti, cantati con i toni dell’elegia. Dietro, però, si nascondono le miserie di una regione arretrata, di cui Nievo illustra la mentalità ottusa e talora crudele: da provinciale autentico, ama il suo angolo intatto di mondo, ma sa che è arrivato il momento di evolversi. E di fare l’Italia.
Così, da buon patriota, s’imbatte nella censura: nel ‘56 viene sorpreso da un mandato di comparizione del tribunale di Udine con l’accusa di «lesione d’onore al Corpo dell’Imperial Regia Gendarmeria» austriaca per una sua satira nel racconto L’avvocatino. La vicenda termina nel marzo del ‘58 con una multa e regala a Nievo una grande notorietà; conteso da giornali, caffè e salotti risorgimentali, a Milano vive una piacevole mondanità, ma anche una storia d’amore impossibile: quella con Beatrice Melzi d’Eril, moglie di Carlo Gobio, l’adorata ‘Bice’ destinataria di lettere che celano, sotto tanta irreprensibilità, una passione incandescente.
Intanto, la letteratura è ormai la sua vita; drammaturgo, romanziere e autore di novelle d’occasione come Le maghe di Grado, ispirata a una sua vacanza nell’isola, pubblica numerose poesie di ambientazione friulana quali Gemona, Nella pineta di Belvedere, Monte Cavallo, Primavera udinese, che riunirà nelle raccolte Versi, del ‘54, e Le Lucciole, del ‘58. Nel ‘59, sul giornale L’età presente scrive che «l’Italia abbisogna di buoni romanzi storici», in quanto genere letterario «che ebbe, massime in Italia, uno splendido assunto: quello di vivificar dal passato le passioni e le idee che possono giovare al presente. Un popolo che sente e che pensa è superbo di sapere quanto sono venerabili, per antichità di fede e di sacrifizi, quei sentimenti, quei pensieri che si agitano in lui con una confusa ingenuità».
A questo popolo «che sente e che pensa» Nievo dedicherà il più grande romanzo della nostra letteratura: Le confessioni di un Italiano.
Il capolavoro assoluto
Oltre mille pagine in otto mesi di lavoro: le Confessioni, scritte in buona parte nel Castello di Colloredo fra ‘57 e ‘58, sono un miracolo di creatività. Sin dalla prima, folgorante frase: «Io nacqui veneziano ai 18 ottobre del 1775, giorno dell’evangelista San Luca; e morrò per la grazia di Dio Italiano quando lo vorrà quella Provvidenza che governa misteriosamente il mondo». A parlare è Carlo Altoviti, che a ottant’anni ripercorre la sua esistenza: orfano dei genitori, adottato dai castellani di Fratta, presso Portogruaro, il piccolo Carlino fa il girarrosto nella cucina del castello.
Ma quel mondo immobile fra Veneto e Friuli, non appena Carlo diventa ragazzo, viene sconvolto dall’arrivo di Napoleone: la gloriosa Serenissima, illusasi di trovare un alleato, si concede al generale e muore. Eppure, Napoleone significa anche “libertà, uguaglianza e fratellanza”: le parole guida della Rivoluzione Francese che infiammano gli oppositori delle tirannie. Carlo è fra questi: inizia così la sua rocambolesca vicenda politica e umana, intrecciata con quella della cugina Pisana, amore impossibile, alter ego della Bice amata da Nievo. Attraverso i loro occhi e quelli dei personaggi che vi ruotano attorno vediamo scorrere tutti i grandi eventi del Risorgimento: il trattato di Campoformido, la nascita della Repubblica Cisalpina, l’eroica Repubblica Partenopea, le rivolte in Puglia, il regno di Napoleone in Italia e la sua caduta, il ritorno dei vecchi regimi, la rivoluzione napoletana del ‘20, i moti carbonari, la guerra d’indipendenza in Grecia, il turbine del ‘48, la Repubblica Romana. Ma anche l’esilio forzato di chi, con la restaurazione di re, imperatori e papi, diventa straniero in patria e se ne va in Inghilterra, Brasile o Argentina per rifarsi una vita. Fino al 1858, quando Carlo posa la penna all’appressarsi della morte per cedere il testimone, lui personaggio ‘di carta’, al suo creatore in carne e ossa.
L’ultimo viaggio
Il 29 aprile del ‘59, provocata a bella posta da Cavour, l’Austria invade il Piemonte: è il pretesto che serve ai Savoia per avviare la II Guerra d’Indipendenza e chiamare in aiuto la Francia di Napoleone III. Ippolito, mentre i suoi fratelli si arruolano nell’esercito regio, sceglie da repubblicano il fronte ‘irregolare’ dei Cacciatori delle Alpi guidati da Garibaldi. Il successo arride ai patrioti, ma Napoleone III ferma l’avanzata e firma a Villafranca una tregua con l’Austria. Il voltafaccia consegna al Piemonte la sola Lombardia, mentre lascia Veneto e Friuli agli Asburgo: per Nievo è un colpo mortale. Ne nasce una riflessione che sfocerà nella Storia filosofica dei secoli futuri, geniale affresco fantapolitico di eventi immaginati fra 1860 e 2222, in cui si pronosticano l’unificazione d’Italia e d’Europa, l’invenzione dei robot, la proliferazione delle droghe, le guerre mondiali e un mondo pronto per l’autodistruzione.
Ma alla prima di queste profezie, una delle poche positive, sarà lo stesso Nievo a dare l’acqua della vita, salpando il 5 maggio del ‘60 da Quarto per partecipare alla Spedizione dei Mille. Dal suo diario seguiamo come in diretta lo sbarco a Marsala, la battaglia di Calatafimi, la presa di Palermo e la fuga delle truppe borboniche: la Sicilia passa in mano a Garibaldi, che affida proprio a Nievo il compito di rimanere sull’isola per amministrare le finanze della Spedizione, destinata a dilagare fino a Napoli. Ippolito accetta, ma sa a cosa va incontro: in una lettera a Bice, denuncia che tutti gli «fanno la corte per suppliche, raccomandazioni ed impieghi; principi e principesse, duchi e duchesse a palate agognano 20 ducati al mese di salario».
E mentre i borbonici di ieri cambiano bandiera e battono cassa, a Palermo arriva Giuseppe La Farina, inviato dell’ala conservatrice di Torino, con l’obiettivo di screditare i Mille: poiché il Sud è ormai piemontese, occorre mettere fuori gioco Garibaldi, considerato un pericoloso repubblicano. Parte quindi una violenta campagna di stampa contro la gestione finanziaria della Spedizione, primo esempio di macchina del fango in una nazione appena nata. E come in un mistero italiano degli anni Settanta, la nave ‘Ercole’ su cui s’imbarca Ippolito il 4 marzo del ‘61, con a bordo le carte che provano la bontà della gestione, sparisce nel nulla vicino Capri: nessun relitto, nessuna traccia, nessun superstite.
Di questo anomalo naufragio si occuperà nel 1974 Stanislao Nievo, pronipote di Ippolito, nello splendido romanzo Il prato in fondo al mare, frutto di ricerche decennali. Fra le tante ipotesi, c’è anche quella del sabotaggio: se così fosse, saremmo di fronte alla prima ‘strage di Stato’. La verità, irraggiungibile come la grandezza di Ippolito Nievo, giace ancora negli abissi del Tirreno.