Un personaggio oscuro
Il mistero, nella biografia di Giulio Camillo, è un dato stabile fin dalla nascita, avvenuta a Zoppola oppure a Portogruaro, forse nel 1480, forse no. Persino sul nome ci sono dubbi di autenticità, secondo alcuni troppo carico di reminiscenze romane (Giulio Cesare, Furio Camillo…) per non essere uno pseudonimo. Sappiamo poco anche della sua infanzia, probabilmente trascorsa fra San Vito al Tagliamento e Portogruaro, dove compie i primi studi «di umanità » per poi trasferirsi a Venezia; si sposta quindi all’Università di Padova, ma nessuno sa se abbia completato o meno gli studi. Quest’aura di mistero sulle proprie origini, sapientemente confezionata dallo stesso Camillo che per tutta la vita ‘costruirà’ il suo personaggio come una leggenda, si somma alla singolarità dei suoi interessi: lingua ebraica «e altre orientali difficilissime» dice il Liruti, nonché le «cose astrusissime della cabala ebraica, o delle mistiche loro tradizioni, e […] de’ dogmi misteriosi ed oscurissimi degli Egiziani, de’ Pitagorici, e de’ Platonici».
L’armonia del cosmo
Dietro questi «dogmi misteriosi ed oscurissimi », a dire il vero, si cela una tradizione ben nota sin dalla tarda antichità greco-romana, quando la dottrina di matrice pitagorica, che vedeva nel cosmo un sistema ordinato ‘matematicamente’, si saldò con i mille rivoli dell’Ermetismo e con l’idea concepita da Platone nel Timeo, dove un Demiurgo plasmava l’universo dandogli una forma ‘intelligente’. Questa concezione verticale della realtà, dove si arriva a capire la natura più profonda dell’esistente solo dopo un progressivo innalzamento cognitivo e spirituale, è da sempre una delle due possibili chiavi di lettura del mondo, contrapposta – ma talvolta fusa assieme – a quella aristotelica, che invece guarda all’essere secondo un’ottica ‘orizzontale’, composita ed empirica: un binomio che Raffaello eternerà nell’affresco vaticano della Scuola di Atene, con il dito di Platone rivolto al cielo e la mano di Aristotele puntata verso la terra. Il dipinto viene realizzato attorno al 1509; sarà pure una coincidenza, ma è lo stesso anno in cui anche Giulio Camillo è a Roma, proprio accanto ai due ‘ideologi’ della Scuola di Atene: lo scrittore Tommaso Inghirami e il cardinale Egidio da Viterbo. Ed è proprio in questo ambiente coltissimo che egli inizia a imporsi come oratore e intellettuale, dividendosi fra la città papale, il suo Friuli e la familiare Venezia, nella quale stringe amicizie importanti – su tutti Erasmo da Rotterdam – accasandosi presso il celebre editore Aldo Manuzio.
L’Idea del Theatro
Gli anni Dieci del Cinquecento sono nuovamente avvolti nell’oscurità, ma in questo lungo periodo il letterato friulano matura l’opera che lo renderà celebre in tutta Europa: L’Idea del Theatro (uscita postuma nel 1550). Per capire di cosa si tratta bisogna tornare al Timeo, dove Platone costruisce una cosmogonia basata su valori numerici, a ognuno dei quali corrisponde un astro celeste che ruota attorno alla Terra ‘suonando’ una determinata nota musicale. Tali astri coincidono con le divinità del pantheon greco-romano, per l’appunto Ermes/Mercurio, Afrodite/Venere, Ares/ Marte, Zeus/Giove, Poseidone/Saturno, alle quali si sommano Artemide/Diana in associazione alla Luna e Apollo in abbinamento al Sole. Su questi dei-pianeti, com’è noto, la mitologia classica aveva costruito un gigantesco repertorio di racconti attraverso cui interpretare la realtà. Giulio Camillo parte da qui e tenta una operazione incredibile: associare alle sette divinità greche altrettanti livelli di ‘lettura’ del mondo, in modo da formare 49 ‘caselle’ nelle quali suddividere l’intero scibile umano.
L’immagine è quella del teatro: nel primo dei sette anelli, in quanto fondamento dell’universo, ci sono Diana/Luna, Ermes/Mercurio, Afrodite/Venere, Apollo/Sole, Ares/Marte, Zeus/Giove e Poseidone/Saturno; la seconda fila è rappresentata dal convivio che Oceano offrì agli dei, momento di unione e quindi simbolo delle Idee, che nella filosofia platonica sono i princìpi che stanno a monte di tutte le cose; il terzo livello è formato dall’«antro», la caverna nella quale le Ninfe tessono e le api producono il miele, a simboleggiare gli elementi della natura e le loro combinazioni; il quarto stadio è quello delle Gorgoni, che con le loro tre teste indicano le anime dell’uomo (razionale, irascibile, concupiscibile); nel quinto c’è invece Pasifae, la ninfa che si unì a un toro, a simboleggiare la dimensione fisica dell’uomo; nel sesto troviamo i calzari alati di Mercurio, emblema delle azioni umane ‘naturali’ (mangiare, bere, dormire etc.); il settimo e ultimo anello spetta invece a Prometeo, rappresentante di arti e scienze.
La combinazione fra le sette colonne divine e i sette anelli teatrali forma appunto 49 settori, ognuno dei quali conterrà una parte del mondo: ed ecco che, ad esempio, la colonna della Luna (n. 1) incrociata con l’anello di Prometeo (lettera A) forma l’immagine di Diana (divinità lunare) con l’arco (strumento prometeico), simbolo della cacciagione. Il posto 1A spetterà quindi a miti, opere letterarie, quadri, sculture e semplici azioni legate alla caccia: un gioco vertiginoso da ripetere, variato e caricato di ulteriori rimandi alla cabala, per le rimanenti 48 caselle, che accoglieranno in questo modo ogni aspetto dell’esistenza.
L’illusione francese
Nel frattempo, il 3l ottobre 1517, Martin Lutero affigge sulle porte della cattedrale di Wittenberg le sue 95 tesi: è l’inizio della Riforma Protestante. Ne arriva solo un’eco lontana alle orecchie di Giulio, interamente rivolto a un solo scopo: costruire materialmente il suo teatro della memoria. Gli anni Venti, però, trascorrono senza che il progetto si concretizzi; alla ricerca di una cattedra di retorica, troviamo il Nostro a Bologna nel 1521, a Padova nel 1524, a Genova nel 1525, a Pordenone nel 1527, a Venezia, Portogruaro, San Vito al Tagliamento e Gemona del Friuli nel 1528. Nel 1530 è di nuovo a Bologna per assistere all’incoronazione imperiale di Carlo V, poi ancora in Friuli, quindi in Francia, alla corte del re Francesco I, ben lieto di finanziare la realizzazione del Theatro: un successo personale del Camillo che, tuttavia, gli aprirà le porte dell’inferno. Le invidie degli intellettuali di mezza Europa, infatti, si mettono in moto: iniziano a fioccare le derisioni feroci, le accuse di follia, il disprezzo per la sua adesione totale al modello retorico di Cicerone, che in quegli anni viene contestato da Erasmo da Rotterdam nel suo Ciceronianus.
Si capisce così la nota maligna di Viglio Zwichem che, in una lettera datata «Padova, 8 giugno 1532», rivolgendosi proprio a Erasmo afferma di aver visto un modellino del Theatro di Camillo: «L’opera è in legno, ornata da molte immagini e gremita in ogni parte di cassettini; in essa ci sono vari ordini e gradi. Egli ha assegnato a ogni singola figura e ornamento il proprio luogo e mi ha mostrato una tale mole di carte che, sebbene io abbia sentito dire che Cicerone è la fonte più feconda dell’eloquenza, difficilmente avrei pensato che un solo autore potesse contenere tante materie […]. Il nome dell’autore te l’ho già scritto: si chiama Giulio Camillo. È assai balbuziente e parla un latino faticoso». Polemiche letterarie a parte, la missiva dimostra che nel 1532 il progetto è già convertito in un plastico, quasi certamente destinato a Francesco I, da cui Giulio torna nel 1534. L’atmosfera a corte, tuttavia, è cambiata: d’improvviso il suo Theatro non interessa più. La Riforma di Lutero avanza e occorre tornare all’ordine: basta con gli esperimenti esoterici.
Alchimia ed eresia
Ossessionato dall’idea di trasformare la sua ‘macchina’ in realtà, Camillo gira le corti di mezza Italia per trovare un mecenate, ma nessuno sembra interessato; ridotto in miseria, si volge alle pratiche alchemiche nel disperato tentativo di trovare il suo posto nel mondo. E di nuovo si scatenano le leggende, come quella che lo vorrebbe autore di un homunculus, un essere vivente creato ‘in vitro’. Voci incontrollate che lo inseguono fino a Ginevra, nei territori già convertiti al Calvinismo, dove lo troviamo nel 1542; anche qui, tuttavia, ermetismo, astrologia e cabala sono dottrine in odore di eresia. Giulio rientra quindi nel suo Friuli, dove riceve una notizia insperata: Alfonso d’Avalos, marchese del Vasto e governatore di Milano, vuole commissionargli la costruzione del Theatro. È il sogno che finalmente si fa realtà, eppure troppo bello per essere vero: arrivato nella città lombarda, muore improvvisamente il 15 maggio 1544. Inizia allora una caccia forsennata ai suoi manoscritti, che finiscono nei luoghi più disparati. Di uno, in particolare, lamentiamo la scomparsa: una copia autografa dell’Idea del Theatro con 201 fogli di pergamena dipinti da Tiziano, conservata nella Biblioteca dell’Escorial di Madrid fino al 1671, quando andò distrutta in un incendio.
Di questo progetto visionario, oggi, conserviamo solo ricostruzioni congetturali, ma una cosa è certa: lungi dall’essere una riedizione delle mnemotecniche dell’antichità, quando si recitava a memoria un’orazione percorrendo con la mente uno spazio noto nel quale inserire, stanza per stanza, un diverso argomento, il teatro di Giulio Camillo ambiva a classificare il mondo intero. Fino all’ultimo traguardo: costruire, tramite l’immaginazione,
nuovi mondi possibili. In altre parole: acquisire il potere di Dio. Il terreno per i voli intellettuali di Giordano Bruno era già dissodato.