Gli anni perduti

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redazione

9 Gennaio 2015
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I limiti del Piano Juncker

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Forse sta cambiando qualcosa nelle politiche economiche dell’Unione europea. Forse è il segnale di un cambiamento che sembra dirigersi verso politiche espansive dopo più di 5 anni di austerità.

Il Piano Juncker prevede di incentivare circa 300 miliardi di investimenti a livello europeo in tre anni con la costituzione di un Fondo di Garanzia, facendo leva principalmente sugli investimenti privati.

Troppo poco? O troppo tardi? Le risorse di cui è dotato il Fondo (EFSI – European Fund For Strategic Investments) sono pari a 21 miliardi, di cui 15 destinati a opere infrastrutturali e 5 alle Piccole Medie Imprese: cifre all’apparenza esigue se si considera che un moltiplicatore pari a 15 è significativo per mobilitare finanziamenti, ma non per supplire alla carenza di capitale di rischio (in particolare delle PMI). Il problema cruciale non consiste nel trovare le risorse, la liquidità a basso prezzo non scarseggia.

La barriera è rappresentata dal livello di rischio percepito dagli investitori e gli sforzi andrebbero indirizzati nel senso della sua mitigazione. Certo la direzione è quella giusta, ma siamo ancora lontani da quello che serve per percorrere velocemente nuovi sentieri di sviluppo.

Dal Fiscal Compact al Growth Compact

Dall’inizio della crisi molti Paesi europei sono affondati in una delle più lunghe e pesanti recessioni della storia e le previsioni per i prossimi anni non sono orientate all’ottimismo, anzi. Le politiche fi scali restrittive senza crescita non sono sostenibili nel tempo, e per l’Italia il tempo sta per scadere.

Accanto al consolidamento dei bilanci pubblici si tratta di varare le famose riforme strutturali, in gran parte avviate, ma anche costose se si pensa che nel breve periodo servono a convincere i mercati finanziari sulla sostenibilità del debito pubblico, mentre manifestano i loro effetti “reali” solo nel medio lungo termine. Ma nel lungo periodo, diceva Keynes, siamo tutti morti. Per il rilancio dell’economia reale servono investimenti, in particolare quelli in innovazione e nelle infrastrutture, che da un lato sostengano la domanda nel breve periodo e dall’altro creano le condizioni per l’espansione della ricchezza nazionale nel medio periodo. Per l’Eurozona si stima che per ogni punto percentuale di aumento degli investimenti si ottiene un aumento del PIL di circa un punto e mezzo per ciascuno dei 5 anni successivi.

Occorre pertanto pensare a politiche economiche e fiscali capaci di promuovere e generare la ripresa della crescita e della competitività, di rilanciare gli investimenti strategici: infrastrutture, innovazione, istruzione e tecnologie. Bisogna fare di più, bisogna cambiare passo mettendo in campo azioni in grado di attivare direttamente, già dal 2015, la domanda di investimenti, calati negli ultimi 6 anni del 20-30% a seconda dei settori considerati. Da più parti viene posta con forza l’esigenza di passare dal fiscal compact (patto fiscale) al growth compact (patto di crescita).

Il perdurare di una situazione di recessione abbinata alla deflazione mina profondamente la stabilità e la coesione sociale con perdita e migrazione di capitale intellettuale e umano, e con ulteriori divaricazioni tra i più ricchi e i più poveri, con impatti inaccettabili in termini di solidarietà sociale, soprattutto nei confronti delle future generazioni. Ormai la politica monetaria non basta.

Migliorare la qualità dei progetti

Si dice che il “cavallo non beve”, riferendosi con ciò alla mancanza di buoni progetti da finanziare.

Ma se la redditività dei progetti infrastrutturali non è commisurata alla loro rischiosità – venendo quindi meno i requisiti di finanziabilità “standard” – in tutto il mondo la maggiore rischiosità dei progetti infrastrutturali e di trasformazione/rilancio di settori industriali chiave è compensata da una quota di intervento a fondo perduto a carico dei bilanci pubblici.

Gli interventi pubblici sono in questi casi necessari per generare ricadute positive (esternalità) per tutti i settori dell’economia. In tale ottica la valutazione del profilo di rischio/ritorno degli investimenti dovrebbe anche considerare gli impatti sociali. Come ha recentemente affermato il Premio Nobel per l’economia Edmund Phelps nel corso di una audizione al Parlamento italiano sul tema investimenti in innovazione: “Non dobbiamo attenerci ai più alti standard per investire in progetti e imprese innovative, quando l’obiettivo principale è il rilancio di più rilevanti flussi di investimenti tramite la disponibilità di maggiori mezzi finanziari e di più selettività”.

In tale prospettiva una delle condizioni essenziali per migliorare la qualità dei progetti e della domanda di finanziamenti è rappresentata dalla costituzione di un centro di competenza che fornisca consulenza e servizi di supporto per la formulazione e la strutturazione dei progetti da presentare in base a principi e criteri standardizzati e trasparenti in merito alla loro eligibilità. Un tale centro di competenza potrebbe trovare opportuni collegamenti e coordinare analoghe entità nazionali/regionali, operando anche per lo sviluppo di una cultura condivisa dell’investimento di lungo termine.

Flessibilizzare il Patto di Stabilità

Stanti gli attuali vincoli derivanti dal Patto di Stabilità, gli investimenti dovrebbero essere incentivati e finanziati per lo più con il debito privato. Circa la metà degli investimenti infrastrutturali (reti, energia, trasporti, innovazione, tecnologie, istruzione) sono oggi finanziati con le tasse, ovvero con la fiscalità generale. Un maggior coinvolgimento dei capitali privati non solo è auspicabile, ma è necessario in assenza di flessibilità nella gestione delle risorse pubbliche che deriverebbe da un growth compact che bilanci il fiscal compact. Ma anche l’opzione auspicabile di maggior coinvolgimento dei capitali privati rischia di arrivare tardi se abbiamo bisogno di attivare investimenti che diano fiato fin da subito a crescita e occupazione.

È perciò necessario che i contributi che i singoli Paesi verseranno nel fondo comune europeo (EFSI) non vengano conteggiati nel deficit e nel debito ai fi ni del Patto di Stabilità. Inoltre anche gli investimenti che i singoli Stati farebbero per cofinanziare i progetti individuati dal Piano Junker dovrebbero essere esclusi da tale conteggio. In tal modo il volano che si creerebbe per gli investimenti risulterebbe di gran lunga amplificato, riducendo i tempi di intervento e realizzazione.

Potenziare il ruolo delle Promotional Institutions

Parallelamente andrebbero sviluppati nuovi strumenti e nuove agenzie pubbliche/private (Promotional Institutions) per mitigare i rischi insiti in progetti complessi che vedono cooperare una molteplicità di soggetti anche per 20 o 30 anni. In Italia un ruolo significativo può essere svolto da soggetti come la Cassa Depositi e Prestiti che finora hanno svolto una importante funzione nel contrastare la recessione.

Il ruolo di questi soggetti, a livello nazionale e regionale, è infatti cruciale per agire da catalizzatore e moltiplicatore di importanti flussi finanziari privati e per sviluppare nuove forme di finanziamento e garanzie attraverso la combinazione della finanza di progetto, di investimenti privati, di contributi pubblici e di cartolarizzazioni.

C’è molto da fare per recuperare il tempo perduto in questi anni di crisi. La necessità di promuovere gli investimenti di lungo periodo nelle infrastrutture, nell’innovazione e nell’istruzione per creare nuovo sviluppo è condivisa a livello governativo e sovranazionale, ma ciò non si concretizzerà nel breve termine in crescita reale se non si abbandonano le logiche e gli approcci puramente regolamentari e fiscali/finanziari che rischiano di caratterizzare i primi decenni di questo secolo come anni perduti.

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