Fuori il dente, fuori il dolore: Liliana Esposito è mia madre a cui dovevo quest’intervista non per obblighi familiari ma perché la sua è una storia bellissima che merita di essere raccontata in quanto ruota intorno a un’arte sempre più desueta nella corsa tecnologica odierna. Sto parlando della musica e in particolare della musica entro il panorama territoriale locale.
La storia artistica di Liliana si intreccia con quella di una donna del sud Italia che negli anni ’80 è stata catapultata a Gorizia come tantissime altre donne meridionali che sono arrivate in questa provincia con le loro pesanti valige e il camion dei traslochi al seguito, venendo accolte da usanze, culture e lingue completamente differenti dalla propria; donne che appena potevano, solitamente d’estate, tornavano alle proprie origini con gli allora viaggi notturni in treno dove ci si addormentava la sera a Udine e ci si risvegliava il mattino successivo a Napoli, le più fortunate nei vagoni letto le altre nelle cuccette, tutte strette nell’intento di riuscire a chiudere occhio.
Liliana iniziamo quest’intervista…
«Aspetta che mi faccio il segno della croce».
Addirittura? Non stai esagerando?
«No, mi aiuta a concentrarmi meglio».
Com’è iniziata la tua lunga storia d’amore con il pianoforte?
«Io non provengo da una famiglia di pianisti: mio padre era un maresciallo della Guardia di Finanza e mia madre una casalinga figlia di una famiglia nobile e ricca di grande cultura. Fu proprio lei a notare che quando avevo solo 5 anni, sul tavolino dove era appoggiata una grande e vecchia radio, quando trasmettevano musica sinfonica io battevo le dita delle mie manine quasi a voler simulare le movenze di una pianista: non ne avevo mai vista una fino ad allora eppure quelle azioni mi sembravano istintive e spontanee. Colpiti, i miei genitori mi iscrissero a lezioni di pianoforte da una suora che caso volle fosse la cugina del maestro Galdieri, famosissimo a Napoli perché autore della trasmissione allora molto in voga “Spacca Napoli”».
Come andò?
«Fin dall’inizio al pianoforte feci subito faville: ricordo che alla prima audizione ufficiale proprio con il maestro Galdieri lui, dopo già i miei primi tocchi alla tastiera, subito disse: “Questa bambina diventerà una grande pianista”. Ed effettivamente negli anni successivi sbocciò tutto il mio talento: al liceo musicale di Napoli, dove venivo accompagnata per passare gli esami annuali, i miei voti erano sempre altissimi “10, 10, 10…” mentre la media generale era 7, 8, massimo 9. Ero portata in trionfo ovunque con l’orgoglio della mia famiglia. Velocemente si sparse la notizia di questa bambina talentuosa: la voce arrivò non solo a chi mi avrebbe apprezzato ma anche ai miei primi detrattori che, ingelositi, costrinsero la suora a non seguirmi più negli studi costringendomi prima a un iniziale smarrimento – allora ero solo una bambina e come tale sensibile alla perdita della maestra – e poi a essere assegnata a una nuova insegnante. Ma la Provvidenza era dalla mia e passato il dispiacere del cambio, fui ascoltata da una maestra di pianoforte molto conosciuta a Castellammare di Stabia, paese in cui vivevo, che si riservò la scelta se prendermi o meno».
Veramente una maestra privata di pianoforte poteva permettersi il lusso di rifiutare un’allieva?
«In generale no, ma lei sì. Era molto in gamba in un panorama di eccellenza della scuola di musica napoletana che sfornava nomi di altissima qualità tra cui, uno fra tanti, il maestro Riccardo Muti. Quindi questa nuova insegnante mi sentì suonare e accettò subito l’incarico».
Studiavi pianoforte sempre, anche 8 ore al giorno, in base ai tuoi impegni scolastici. Come hai conciliato tutto?
«Dopo la licenza ginnasiale, a 16 anni, comunicai ai miei genitori la decisione di volermi dedicare esclusivamente agli studi musicali. Allora avevo già superato l’esame di quinto anno di pianoforte e sapevo e senza dubbio alcuno che la mia strada era la musica. Mio padre dapprima non era d’accordo, sperava in una laurea in medicina, ma io non ho mai avuto esitazioni. Mia madre mi sostenne e, a dipanare qualunque incertezza, contribuì l’esito di una importante audizione che feci in quegli anni con uno dei più grandi pianisti della scuola napoletana di concertismo, il maestro Sergio Fiorentino. Lui accolse me, tesissima dall’emozione, i miei genitori e la mia maestra a casa sua dove eseguii tutto il repertorio dovuto. Verso la fine della mia esecuzione, mi si sedette accanto accompagnandomi a quattro mani per suonare il finale insieme per poi, finito il pezzo, girarsi verso la mia maestra ed esclamare “Ma che me l’hai portata a fare questa ragazza! È preparatissima, non ha bisogno dei miei consigli”. Ogni dubbio di mio padre sulle mie scelte professionali fu dipanato».
Dopo tante conferme, quale fu il tuo trampolino di lancio verso la carriera di concertista?
«A 19 anni diedi l’esame di ottavo anno: difficilissimo e corposo. Le commissioni di esame erano due e così divisero in due gruppi tutti noi aspiranti pianisti. Nella commissione opposta alla mia c’era il maestro Vincenzo Vitale, un altro nome stimatissimo della scuola napoletana. All’esame io eseguii il Valzer in Re bemolle di Chopin anche chiamato “La coda del cagnolino”. Mi riferirono che il maestro Vitale appena udì la mia musica diffondersi nei corridoi uscì dalla sua aula per ascoltarmi da dietro la porta e quando finii sbottò esterrefatto “Che meraviglia!”. Questo fu lo slancio che mi accompagnò verso l’esame del decimo e ultimo anno. Due anni intensi di preparazione dove ricordo che studiavo sempre e senza alcun rimpianto di dedicare tutta la mia giovinezza alla musica. Mattina, pomeriggio e sera, lì in una stanza della casa che negli anni fu adattata alla mia passione: due pianoforti, uno verticale e un quarto di coda, uno acquistato da me con i miei primi risparmi dalle lezioni private che già impartivo dall’ottavo anno, l’altro regalatomi dai miei genitori. All’esame, che consiste in un vero e proprio concerto, al termine del mio Bach, un maestro in commissione ruppe il silenzio generale e mi disse “Sono vent’anni che io non sentivo un Concerto Italiano di Bach eseguito in questa maniera, brava!”. Mi diplomai ovviamente con il massimo dei voti e non passò molto tempo che fui contattata da tutti i grandi maestri per iniziare la mia carriera concertistica: mi si spalancarono le porte dell’altissimo livello pianistico. Quale più alta soddisfazione per tutte le ore passate al pianoforte?»
Quanti concerti hai poi fatto?
«Uno soltanto, a Napoli».
Perché solo uno?
«Non era la vita che volevo: fui da subito travolta dalle pressioni legate al concertismo, gli orari, i viaggi. Io amavo follemente la musica ma non la proiezione di quella vita. Mi fu chiaro che non avrei dovuto sposarmi né tantomeno pensare di avere dei figli da seguire. No, io volevo la mia famiglia, volevo realizzarmi come madre, non rinnegavo il mio amore verso il pianoforte ma crescere e diventare donna ha fatto emergere in me nuovi desideri e priorità».
Cosa facesti quindi?
«Ci pensai a lungo e ne parlai con i miei genitori e con la mia maestra di pianoforte. Scelsi di ritirarmi dal concertismo e contestualmente preparai il concorso per insegnare musica nelle scuole, che poi vinsi subito. La mia maestra era la più addolorata e mi implorò di non tralasciare gli studi mentre i miei genitori oramai avevano capito che io comunicavo a loro solo sentenze senza appello».
Alla fine hai dato ascolto all’implorazione della tua maestra proseguendo gli studi musicali?
«A livello di concertismo no: mi sposai con un ufficiale della Guardia di Finanza che ogni 5 anni si trasferiva di sede, mi ritrovai in giro per l’Italia con due figli piccoli, mobili con le rotelle e un pianoforte traslocato di continuo. Come avrei potuto abbandonare la mia famiglia per arpeggiare ore e ore al pianoforte? Scelsi consapevolmente di non raccogliere le soddisfazioni di una vita da concertista ma questo non mi impedì di acquisirne altre nell’insegnamento. Il mio è stato un cambio di vita senza rimpianti: una scelta che rispondeva all’amore per la mia famiglia e per me stessa, donna e madre».
Nei vari trasferimenti in giro per l’Italia l’ultimo è stato a Gorizia. Come ti ha accolto questa città e come ha accolto la tua musica.
«Sono arrivata a Gorizia nell’85, provenendo dai paesini del Golfo del Tigullio in Liguria. Vi arrivavo come insegnante di scuola superiore e media e subito mi affidarono cattedre tra Gorizia, Farra d’Isonzo e Lucinico. Gorizia mi accolse con la tipica prima diffidenza che ho imparato a conoscere nelle persone del nord e che io già avevo affrontato in Piemonte o in Liguria dove, dopo un inizio segnato da profondo distacco da parte di tutto lo staff docente, fui poi salutata con il pianto di tutti che col tempo avevano capito non solo la mia umanità ma anche la mia bravura nel campo professionale. La diffidenza goriziana dunque non mi spaventò. Più che altro in quegli anni c’era una grande curiosità verso chi, come me del sud, veniva a lavorare al nord e soprattutto per chi era sposata e con figli quando tante altre colleghe meridionali raggiungevano le cattedre del nord da single, alla sola ricerca di un posto di lavoro nella scuola a tempo indeterminato. Con il tempo e la mia solarità trovai la sintonia con i colleghi e successivamente tutta la loro solidarietà, la stessa che, proprio a volerne raffrontare, nella mia Napoli mi veniva accordata fin da subito e a prescindere. Ma sono culture differenti e la mia vita, in giro per l’Italia, mi ha insegnato anche a rispettare i tempi altrui».
Quali esperienze di docenza musicale fatte in città ricordi in particolare?
«La scuola di musica Lipizer con la professoressa Lipizer, la scuola media D’Attems con don Luigi Pontel, Nostra Signora con Suor Gabriella, le Madri Orsoline con Madre Cristina. E poi l’Istituto di Musica con Perini, la Marussi, Del Zotto, Urdan, Grandi, Liviero, Tortora, Brussolo: tutti maestri incredibili che ho amato moltissimo. Negli anni ’80 e ’90 la musica era molto in auge in città e venivano fatti saggi meravigliosi da parte di tutte le scuole presenti, onorati poi dalla successiva venuta del grande Maestro Mander e del suo ambizioso progetto di fondare l’orchestra sinfonica. Fu un crescere qualitativo enorme che però invece di sbocciare come avrebbe dovuto implose a seguito di dissapori interni e poca lungimiranza e così i tanti ragazzi, anziché trovare una motivazione nel professionismo musicale, si allontanarono prima da queste grandi scuole e poi via via dalla musica stessa. Oggi la cultura musicale in città, nonostante qualche lodevole sforzo di qualche collega, è molto spenta. Peccato: dovrebbero fare molto di più per i giovani».
Ogni lavoro restituisce qualcosa sul piano umano, fare l’insegnante di musica cosa ha ti dato?
«Appagamento morale, la grande sensibilità di capire gli altri. Per quanto lo studio della musica sia sempre troppo poco preso in considerazione, aiuta invece la quadratura personale, l’integrazione, la socializzazione, lo sviluppo della maturità emotiva. Pensa al miracolo di mio nipote, tuo figlio, che si siede accanto a me e mi chiede “Nonna suonami Chopin”: lui non ha studiato musica eppure la sua emozione svela la profondità d’animo che possiede e come lui tantissimi bambini che sono diseducati all’ascolto e al contatto con la loro intimità solo perché impegnati nella vita frenetica a imparare nozioni e concetti (computer, inglese, scienze…) nella speranza dei loro genitori di offrirgli qualche chance lavorativa in più. Quando io suono, invece, la musica rapisce, ipnotizza: c’è qualcosa di magico in questo, non andrebbe trascurato o sottovalutato».
Parli di aver acquisito maggiore sensibilità, perché?
«Perché un pianista, o un artista in genere, cerca la perfezione in quello che fa e suonando tutti i grandi (Beethoven, Mozart e altri) si impara a conoscerli, compenetri nel loro animo, li capisci bene sforzandoti di rendere esattamente quello che volevano loro. È un esercizio costante di sensibilità e di immedesimazione nell’animo altrui».
Pensi che la musica sinfonica dovrebbe essere insegnata a tutti e che, quindi, sia alla portata di tutti?
«Certamente, anche tu l’hai studiata ed eri bravissima».
No, io ero una capra.
«Non è vero».
Sì, invece.
«Potevi applicarti meglio».