L’Associazione degli ex giocatori d’azzardo e delle loro famiglie (AGITA), con sede a Campoformido, ha recentemente presentato alla Regione Friuli Venezia Giulia un approfondito documento sulla dipendenza da gioco d’azzardo, tenendo conto dell’esperienza maturata sul campo in 15 anni di attività.
«Ciò che emerge nei nostri gruppi di terapia – spiega il vicepresidente di AGITA, Maurizio Cechet – sono storie legate ai giochi di fortuna: pratiche né utili né produttive, bensì inseparabili dal rischio e dalla pura perdita. Giochi d’azzardo che non creano abilità, ma distruggono i delicati equilibri della vita, accecando le persone con la speranza di vincite che rivoluzionino la loro esistenza». Si tratta di una realtà drammatica, ma fortemente presente nel nostro Paese; dalle ultime indagini condotte sul gioco in Italia, infatti, emerge come oltre l’80% della popolazione vi dedichi una qualche attenzione (la speranza di arricchirsi con il gioco riguarda in particolare quasi la metà delle famiglie con redditi al di sotto della media e più della metà dei disoccupati) e come l’incidenza del gioco d’azzardo patologico interessi all’incirca il 1% della popolazione adulta. Si rileva inoltre un costante aumento nella quantità di denaro investita dagli italiani in questa attività: nel solo 2011 il giro d’affari, rende noto l’AGITA, è stato di circa 80 miliardi di euro.
Si tratta di cifre impressionanti, che dimostrano come il gioco d’azzardo sia uno dei pochi settori (se non l’unico) a non risentire dell’attuale crisi economica e che anzi, nel corso del 2011 e negli anni precedenti, se ne sia consistentemente avvantaggiato, coinvolgendo tutti gli strati sociali. «Questa pericolosa illusione – sottolinea Cechet – nella maggior parte dei casi conduce all’indebitamento, fino alle conseguenze estreme dell’usura. Da un calcolo approssimativo emerge come in Italia il numero di “dipendenti dall’azzardo” si aggiri tra i 700.000 e gli 800.000. Inoltre, dal momento che il problema non può essere ricondotto esclusivamente al singolo giocatore ma va esteso quantomeno al nucleo familiare, ci troviamo di fronte a un pesante incremento della quantità di persone direttamente e indirettamente coinvolte, tale da costituire nel nostro Paese (e non soltanto), una vera e propria emergenza sociale».
Ma come si è giunti a questa situazione drammatica? «L’evolversi dei costumi e il crescente bisogno di trasgressione e libertà – prosegue Cechet – hanno trasformato l’azzardo, agli occhi dell’uomo comune, in un diversivo molto accattivante, fino a renderlo un bene di consumo promosso e pubblicizzato come occasione di scambio sociale, con regole semplici e promesse di vincite facili e cospicue. Di conseguenza, le varie offerte di gioco si fanno sempre più aggressive e istituzionalizzate: esso non è più legato a un momento della settimana o a un luogo specifico, ma entra nella quotidianità delle persone (è possibile giocare ovunque, dal bar sotto casa alla tabaccheria più vicina, e per una fascia oraria estesa); è alla portata di tutti (le nuove forme di gioco si rivolgono a un pubblico vastissimo di “consumatori” che include le famiglie); è facilmente fruibile (i luoghi in cui è possibile giocare d’azzardo vengono aperti in zone della città in cui c’è un grosso transito di gente, ad esempio in prossimità di centri commerciali, secondo una mirata politica di marketing)».
E lo Stato come si comporta? «La politica finanziaria del nostro Paese – precisa il vicepresidente di AGITA – ha un ruolo determinante in tutto questo; basti pensare al via libera dato dallo Stato alle slot machine, all’aumento del numero di estrazioni del Lotto e ancora alle scommesse sportive, alle sale Bingo e all’avvento dei gratta e vinci. Per finire, si è aperta una nuova autostrada virtuale che porterà l’azzardo in milioni di case: il gioco on line, da effettuarsi mediante carte prepagate sotto il controllo del monopolio statale». Ma dal documento redatto dall’AGITA emergono altre delicate questioni. Esaminando la situazione economica italiana dalla metà degli anni Novanta fino al 2004, infatti, si rileva un rapporto di proporzionalità inversa tra l’andamento dell’economia del gioco e quella del Paese. In altre parole, a una domanda decrescente di beni e consumi, lo Stato ha risposto con un incremento di offerta di azzardo, provocando un dirottamento della domanda di beni verso la dissipazione di capitali.
Dati e analisi che, da soli, non tengono conto delle conseguenze sociali del fenomeno. «A livello individuale – testimonia Cechet – notiamo che il giocatore d’azzardo patologico dedica la maggior parte del tempo al gioco investendo quantità sempre crescenti di denaro, ed è quindi fortemente indebitato. Spesso si trova a perdere il lavoro, arriva a compiere frodi e falsificazioni e, nei casi estremi, tenta il suicidio. A livello familiare, riesce a nascondere per lungo tempo i suoi problemi connessi al gioco; tuttavia, le sempre più frequenti “assenze” da casa lo allontanano dalle responsabilità del suo ruolo, che devono necessariamente venire compensate dagli altri familiari (ad esempio, per un padre assente ci sarà una madre che dovrà accollarsi anche la funzione paterna o un figlio, alle volte ancora adolescente, che dovrà assumere il ruolo di capofamiglia). Tutto questo, nel contesto di una disastrosa situazione finanziaria che porta a un crollo nella qualità di vita dell’intero nucleo familiare e a cambiamenti determinanti nei progetti e nelle prospettive di vita futura dei singoli membri (non è infrequente, ad esempio, l’avvio prematuro al lavoro dei figli, che si trovano a dover assumere responsabilità eccessive per la loro età). A livello sociale, infine, notiamo una ridotta o azzerata attività produttiva, quasi sempre situazioni di forte indebitamento e gravi fallimenti finanziari cui corrisponde, come unico “vantaggio”, un notevole introito economico per i gestori delle case da gioco e per lo Stato».
Di fronte ad uno scenario così desolante, c’è un modo per intervenire? «Si può affermare con decisione – conclude Cechet – che nulla finora è stato fatto per frenare o moderare il fenomeno del gioco d’azzardo; al contrario, è doveroso sottolineare e condannare la propaganda sempre crescente e le vere e proprie speculazioni economiche che lo Stato opera su questo fenomeno. Alcuni tra i provvedimenti auspicabili potrebbero consistere nella riduzione dell’offerta di azzardo, nell’eliminazione della pubblicità, nell’incremento dell’informazione al pubblico sui pericoli della dipendenza e nell’attivazione di servizi finalizzati a eliminare l’abitudine di giocare d’azzardo: tutti aspetti preventivi indispensabili, di cui tuttavia ancora nessuno dà l’impressione di volersi occupare seriamente».
Andrea Riccardi, 62 anni, è il Ministro per la Cooperazione internazionale e l’integrazione, con deleghe alla politiche per la famiglia, gioventù, politiche antidroga, servizio civile, adozioni internazionali, antidiscriminazione razziale. Di fatto è il principale esponente del governo Monti chiamato a confrontarsi con le problematiche sociali legate alle dipendenze da gioco d’azzardo.
Ministro Riccardi, la piaga del gioco d’azzardo in Italia raggiunge ogni anno nuovi record, sia per il giro di denaro sia per il numero di cittadini coinvolti. Lo Stato cosa può fare per invertire questa tendenza?
«Credo che lo Stato possa fare molto perché ci troviamo davanti ad uno scenario totalmente diverso da quello cui eravamo abituati. Negli ultimi anni, infatti, l’azzardo si è inserito in ogni spazio della quotidianità: radio, televisioni, edicole, bar, per strada, ma anche nelle nostre stesse case. Si può dire che abbiamo assistito ad uno dei più incredibili processi espansivi dell’azzardo, davvero una rivoluzione senza precedenti nel nostro Paese. Tutto ciò ha generato un cambiamento culturale notevole: il gioco d’azzardo è ormai un fatto esibito ed accettato. L’azzardo sembra assumere una veste buona: dispensa fortune a chi non ha nulla, è come un re-distributore di ricchezza. Etienne Marique, Presidente della Commissione Parlamentare a Bruxelles sul gioco d’azzardo, ha fatto osservare che nel gioco ci sono vari attori. C’è l’industria del gioco, che ovviamente ha come obiettivo l’aumento del proprio fatturato, e c’è lo Stato che deve garantire la trasparenza sulle politiche relative al gioco ed ha la responsabilità di tutelare i cittadini attraverso l’emanazione di leggi congrue con tale finalità e con l’aiuto e l’assistenza per chi vive una dipendenza dal gioco d’azzardo. Insomma, non devono essere confusi i piani. Questo mi sembra un punto nodale e già in questo può esservi una netta inversione di tendenza».
Sarà, ma intanto dati alla mano sempre più italiani spendono il proprio denaro nei giochi a premi promossi dai Monopoli di Stato (Superenalotto, Win for Life, e via dicendo…). Molti sociologi e psicoterapeuti parlano apertamente di “Azzardo di Stato”. Lei cosa ne pensa?
«È vero, il gioco non è più una dimensione marginale che coinvolge pochi. Gli italiani giocano soldi sempre di più: il gioco è ormai un mercato in crescita che coinvolge milioni di persone, una vera e propria industria che sta assumendo dimensioni sempre più ampie che arrivano ad investire ogni sfera della vita familiare. Non si tratta di criminalizzare il gioco di per sé. Sono rimasto molto colpito dalle tante lettere che mi sono arrivate, al momento del conferimento delle deleghe: sono storie drammatiche di famiglie, distrutte dal gioco d’azzardo, segni di un piccolo ma devastante terremoto che ha messo in ginocchio famiglie intere, anziani, giovani. In tutte c’era la richiesta di fare qualcosa. Per questo ho chiesto ai miei uffici di studiare il problema che è piuttosto complesso. Lei parla di “Azzardo di Stato”. Qualcun altro ha coniato un termine ancora più duro: “Stato croupier”. A me sembra come se in questa “corsa all’azzardo” non ci si sia lasciati interrogare sugli effetti che la pratica può avere».
Si spieghi meglio.
«Parlo evidentemente dei problemi che la diffusione dell’azzardo avrebbe portato con sé: la dipendenza, l’estensione delle attività della criminalità organizzata, i problemi che poteva suscitare, soprattutto nella popolazione giovanile. Certo, c’è un colpevole ritardo che l’Unione Europea ci ha fatto notare, nel contrastare l’azzardo. Autorevoli voci si sono levate, penso a quella del cardinal Angelo Bagnasco che, in qualche modo, si è fatto portavoce di una sofferenza che tante associazioni avevano già evidenziato, ma di fronte alle quali poco si era fatto. Ma vedo segnali incoraggianti di una presa in carico dei problemi, da parte delle istituzioni preposte».
Lo Stato per ora si è limitato a inserire lo slogan “Gioca responsabile” in tutte le pubblicità inerenti i giochi a premi di cui sopra. Lo ritiene un modo per lavarsi la coscienza?
«Nel nostro Paese l’industria del gioco si colloca al terzo posto. Lei prima parlava di record: abbiamo il primato mondiale per quanto attiene alla spesa pro-capite: si è calcolato che ogni italiano spenda per il gioco, mediamente, 1.260 l’euro l’anno. La spesa per il gioco è aumentata in maniera considerevole negli ultimi anni e per lo Stato il ricavato rappresenta, ormai, quasi il 4% del P.I.L. (prodotto interno lordo, ndr): un fatturato notevole, circa 16 volte il business annuale di tutta Las Vegas. In Italia abbiamo 450 mila slot machine, una ogni 150 abitanti, e si calcola che il 30% dei giocatori sia rappresentato da minorenni, più di 3 milioni. Di fronte a questo fatto viene detto a tutti: “Gioca responsabile”. Ci sarebbe molto da dire anche sull’utilizzo dei termini. Il gioco ha, per suo statuto, una valenza sociale che si coniuga con aspetti quali la gratuità, la libertà, lo svago. Si può smettere di giocare quando si vuole. La responsabilità, e penso soprattutto ai giovani, non è un valore innato, come diceva bene Vittorio Bachelet, “bisogna educare alla responsabilità, alla saggezza, e soprattutto alla prudenza”. Aggiungerei anche educare alla verità. Insomma, credo sia giusto dire “gioca responsabile” ma andrebbe visto l’effetto che fa. A me sembra troppo poco, quasi una sorta di segnale incompleto, a cui occorre aggiungere altri segnali ben più chiari».
Restiamo in tema di segnali, allora. Cosa pensa della sovraesposizione di spot televisivi e radiofonici nelle cosiddette fasce orarie protette? Perché i minori non vengono tutelati in tal senso?
«Ovviamente non posso che essere contrario a tale sovraesposizione. C’è bisogno di nuove norme che ribadiscano l’eliminazione di ogni pubblicità televisiva, messaggi promozionali o spot nelle fasce orarie protette. So che sono già state presentate alcune proposte in tal senso e dobbiamo, al più presto, arrivare ad una forma di regolamentazione, simile a quella presente, ad esempio, per la pubblicità per gli alcolici. I dati sono veramente allarmanti: i giovanissimi sono una fascia di popolazione tra le più sensibili alle sirene dell’azzardo. Io sono molto preoccupato delle conseguenze, che ancora non sono al momento visibili: per quanti di loro si aprirà la strada ad una nuova dipendenza? Noi dobbiamo tornare a parlare alle giovani generazioni, ad intercettare le loro paure e quel senso di impotenza che sembra lasciare più soli senza poter costruire un futuro certo. Dobbiamo, con la massima chiarezza, dire a loro e a tutti che l’unica strada per garantirsi un futuro non è attraverso l’azzardo».
Ma lo Stato può permetterselo? L’erario incassa annualmente decine di miliardi di euro grazie ai giochi a premi: a suo avviso è realistico immaginare che abbia un minimo interesse a porre un freno all’ “Azzardo di Stato”?
«Non voglio disconoscere il ricavo che ne viene per lo Stato. Ma facciamo un discorso sui costi. In un interessante dossier dell’associazione Libera ho potuto apprendere che attorno al gioco d’azzardo ruotano in Italia ben 41 clan mafiosi. Le varie mafie hanno fiutato l’affare e secondo il recente Rapporto Antimafia vi sono ormai infiltrazioni quasi dappertutto. Con l’azzardo prolifera anche l’usura, e il gioco d’azzardo patologico porta con sé un indotto criminale. Conviene allo Stato non intervenire per porre freno all’azzardo? Senza parlare poi dei costi sanitari: quanti possibili malati d’azzardo ci saranno in futuro? La ludopatia ha un costo sociale altissimo. Senza scordare i costi per le famiglie. Per quanto riguarda poi le entrate per lo Stato andrebbero fatti bene i conti. A fronte del boom incredibile di giochi di ogni tipo, il gettito fiscale è sceso? Ci troviamo davanti ad un paradosso: le entrate per l’erario sono scese sensibilmente, passando da 9 miliardi e 58 milioni a 8 miliardi e 640 milioni. Per questo condivido le preoccupazioni dei sociologi
uando dicono che con l’azzardo perdono un po’ tutti: calano i consumi e si deprime l’economia».