Assistere il parente disabile… Attenzione!

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Massimiliano Sinacori

10 Ottobre 2017
Reading Time: 4 minutes

Permessi lavorativi

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Il nostro ordinamento, all’art. 33, comma 3, della legge 104/1992, prevede la possibilità, per il lavoratore che debba assistere un familiare in grave situazione di disabilità, di usufruire, ogni mese, di tre giornate di permesso lavorativo retribuito. I soggetti che possono richiedere tali permessi sono il coniuge, il parente e l’affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora i genitori della persona disabile abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancati; inoltre, detti soggetti devono necessariamente rivestire la qualifica di lavoratore dipendente. Da ultimo, con la circolare 38/2017, l’Inps ha esteso la possibilità di beneficiare dei permessi lavorativi per l’assistenza ai disabili anche alle parti di un’unione civile e ai conviventi di fatto con riferimento al proprio partner. Tuttavia, tale apertura non ha ricompreso nell’ambito di applicazione della normativa l’assistenza ai parenti del “compagno”.

I permessi non possono mai essere utilizzati quando la persona che necessita di assistenza sia ricoverata presso una struttura sanitaria, poiché, in tale situazione, l’attività assistenziale verrebbe prestata in modo continuativo da parte degli operatori della struttura e, pertanto, verrebbe meno il presupposto su cui si fonda il diritto.

In riferimento alla norma attributiva di tale beneficio sono sorti molti dubbi interpretativi, in particolare, con riguardo alle concrete modalità con cui deve essere prestata l’attività assistenziale in favore del parente disabile. Le conseguenze legate a un’errata interpretazione della normativa, da parte del lavoratore, si sono rivelate molto gravi, comportando in alcuni casi il licenziamento, nonché la condanna per truffa ai danni dello Stato.

Molteplici sono stati i casi in cui i datori di lavoro hanno dato incarico ad agenzie investigati e di seguire il lavoratore, durante i permessi, al fine di accertare se lo stesso avesse utilizzato tali benefici per prestare effettivamente assistenza o si fosse dedicato ad attività del tutto estranee, come ad esempio l’attività sportiva. Fino al 2010 il dato normativo si presentava più stringente, in quanto, i benefici assistenziali riconosciuti dal Legislatore erano riservati solamente a coloro che avessero assistito i parenti disabili gravi in via “continuativa ed esclusiva”.

Anche a seguito della modifica, avvenuta con la Legge 183/2010, del testo normativo che ha eliminato i requisiti di continuità ed esclusività, la giurisprudenza ha continuato a fornire un’interpretazione molto rigida della disposizione in commento, ritenendo che il lavoratore dovesse impiegare il permesso lavorativo prestando completa assistenza al parente disabile. Tuttavia la realtà dei fatti ha presentato delle fattispecie che non si conciliavano facilmente con la rigida impostazione della Corte e che, certamente, non configuravano un abuso del diritto da parte del lavoratore. Non di rado, infatti, la persona disabile, in ragione del proprio grado di disabilità, non necessita di un’assistenza domiciliare fissa e, allo stesso tempo, l’assistenza può essere prestata anche attraverso attività indirette che non implicano necessariamente la presenza del lavoratore presso il domicilio dell’assistito; basti pensare ai colloqui con i medici, agli acquisti dei medicinali, alla spesa e a tutta una serie di attività prodromiche all’assistenza concreta del disabile.

Di recente, la Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi, con la sentenza 54712/2016, sul caso di una lavoratrice dipendente che aveva usufruito dei permessi lavorativi per farsi una vacanza, omettendo di prestare assistenza alla madre disabile. Fermo restando che, nel caso in questione, la condotta tenuta dalla lavoratrice aveva, certamente, configurato un abuso del diritto, tale, addirittura, da integrare il reato di truffa, la Suprema Corte, con tale pronuncia, ha colto l’occasione per fare chiarezza sul dato normativo, andando a indagare il bene giuridico che il Legislatore intendeva tutelare attraverso tal disciplina.

Sul punto, il provvedimento ricalca i principi di diritto già delineati nella sentenza 4106/2016 della stessa Corte di Cassazione, individuando la ratio posta a fondamento del diritto nella necessità, da un lato, di tutelare le persone disabili e, dall’altro, di garantire benefici a favore di coloro che se ne prendono cura. Secondo la Corte di Cassazione l’istituto in commento si configura come uno strumento di politica socio assistenziale, teso a valorizzare le relazioni di solidarietà interpersonale e intergenerazionale, attraverso il quale il Legislatore intende supportare le famiglie che si fanno carico dell’impegno che comporta l’assistenza di un parente disabile. Rispetto all’interpretazione normativa che veniva data dalla giurisprudenza precedente, questa pronuncia valorizza l’aspetto per cui questi permessi retribuiti andrebbero utilizzati sia allo scopo di garantire una maggiore quantità nell’assistenza del parente disabile sia al fine di permettere al lavoratore dei ritagli di tempo per lo svolgimento di proprie esigenze personali o di attività che gli consentano il proprio ristoro psico-fisico. Parrebbe irragionevole, dunque, ritenere illegittimo lo svolgimento di alcune attività personali durante i permessi lavorativi, poiché è illogico vincolare il momento dell’assistenza in un arco temporale, in quanto questa deve svolgersi in termini di continuità in senso lato e non con riferimento all’orario del singolo permesso.

Alla luce dei nuovi spunti offerti dalla Suprema Corte, è auspicabile un intervento legislativo che possa mettere ulteriore chiarezza su questo istituto, che rappresenta certamente un importante strumento a tutela delle famiglie e delle persone.

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