L’operaio dell’arte

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Claudio Pizzin

4 Agosto 2021
Reading Time: 5 minutes

Giorgio Celiberti

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All’interno del suo studio a Udine, Giorgio Celiberti opera in un fermento continuo. Classe 1929, l’artista sembra non accorgersi del tempo che scorre. La sua, infatti, è un’elaborazione che non conosce soste. Pittore, scultore, ceramista, designer: la sua arte è il risultato dell’evoluzione di una vita dedita alla sperimentazione.

Viaggiatore del mondo, Celiberti ha avuto l’opportunità di entrare in contatto con luoghi e artisti internazionali che ne hanno plasmato lo stile ma, soprattutto, allargato gli orizzonti e le visioni. Eppure la scintilla decisiva non è scattata nella pomposità di una mostra o nella frenesia di un atelier, bensì nel silenzio assordante di un campo di concentramento in Repubblica Ceca. Come ci racconta in questa intervista a cuore aperto.

Maestro, come nasce in lei l’impulso per creare le sue opere?

«Il mio lavoro nasce dal niente ogni giorno, se non addirittura ogni ora. Un lavoro che si evolve mentre viene svolto: può capitare che parta con l’idea di realizzare un’opera e che finisca per crearne una completamente diversa».

In qualità di artista come si definisce?

«Sono un operaio dell’arte. Lavoro tutti i giorni: sabato, domenica, Pasqua, Natale… L’unica mia necessità è quella di stare bene fisicamente, per il resto ci pensa l’anima, ci pensa l’istinto, ci pensa il lavoro».

Lei è l’unico artista vivente che ha partecipato alla prima Biennale di Venezia del dopoguerra; in quell’occasione è stato anche il più giovane tra i partecipanti: che ricordi ha di quell’evento?

«Quando ci ripenso mi commuovo. Ricordo il caloroso abbraccio del Presidente della Repubblica, Luigi Einaudi: saputo della mia presenza, era venuto a porgermi degli auguri molto affettuosi che io ho ancora nel cuore».

Tra quelle da lei realizzate, qual è l’opera a cui è più affezionato?

«In realtà nel mio cuore ho sempre la speranza che l’opera più bella sia quella che devo ancora realizzare. Mi sembra di aver fatto molto poco nella vita».

Lei ha lavorato in diverse città e in diversi Paesi: a quale è particolarmente legato?

«La città dove vivrei volentieri è Parigi. Ci andai poco più che ventenne dopo aver vinto una borsa di studio. Vi trovai fin da subito un terreno fertile per la mia anima, con tanti giovani di tutte le nazioni, desiderosi di scambiarsi esperienze e di condividere i propri lavori. Il meglio che un giovane artista come me all’epoca potesse desiderare».

Nel 1965 ha visitato il lager di Terezin, vicino a Praga, dove migliaia di bambini ebrei, prima di essere uccisi dai nazisti, hanno lasciato in graffiti e disegni testimonianza della tragedia, con brevi frasi a raccontare la drammaticità della loro vita. Un episodio che ha modificato totalmente la sua arte…

«Ancora oggi parlarne mi fa tanto male. In quel luogo hanno vissuto bambini e ragazzi tra gli 8 e i 15 anni. I graffiti che hanno lasciato sul muro sono la testimonianza della loro storia. Per questo ho voluto fare in modo, attraverso la mia arte, che tutto ciò non venisse mai dimenticato. Per questo anch’io, da allora, ho deciso di realizzare graffiti».

Lei è anche l’autore di uno dei più grandi affreschi al mondo, 840 metri quadrati di dimensione, realizzato nel 1991 in Giappone sulla volta dell’hotel Kawakyu a Shirahama.

«All’epoca ero un sessantenne in forze e fu un’esperienza entusiasmante. Aver decorato uno dei più grandi hotel del mondo in un Paese dalla cultura millenaria è stato qualcosa di stupendo. L’unico rammarico fu che i miei genitori erano già morti e non ho potuto far vedere loro questo importante lavoro. Shirahama è una città del sud del Giappone, dove si trova la spiaggia più grande del Paese. Mi sono fermato diverso tempo, ottenendo soddisfazioni enormi perché le persone che mi avevano ospitato erano di una generosità e di una simpatia uniche. Ancora oggi stento a credere di aver vissuto un’esperienza così speciale».

Dopo aver superato i 90 anni, quali sono i prossimi obiettivi di Giorgio Celiberti?

«Voler bene al mio prossimo, essere in pace con il mondo, avere la serenità e la forza di poter lavorare, senza tanti dolori. In questo periodo, dopo aver lavorato, avverto forti dolori alle braccia, tanto da non riuscire a infilarmi una camicia o una giacca. Ma sono ancora qui. Aspetto serenamente il mio momento: non ho paura della morte».

 

Giorgio Celiberti nasce a Udine nel 1929. Comincia giovanissimo a dipingere, appena diciannovenne partecipa, infatti, alla Biennale di Venezia del 1948, la prima del dopoguerra. A Venezia frequenta il liceo artistico e poi lo studio di Emilio Vedova. Sulle orme dello zio Modotto, uno dei più importanti pittori udinesi degli anni Trenta, protagonista, assieme ai fratelli Basaldella (Afro, Dino e Mirko) a Filipponi e a Candido Grassi, del rinnovamento in senso novecentistadell’arte friulana, Celiberti agli inizi degli anni Cinquanta si trasferisce a Parigi, dove entra in contatto con i maggiori rappresentanti della cultura figurativa d’oltralpe.

Inizia così una serie di viaggi che rimarranno fondamentali per la sua formazione: nel 1956 vince la borsa di studio del Ministero della Pubblica Istruzione che gli consente di soggiornare a Bruxelles, dove ebbe modo di completare le proprie ricerche sull’arte d’avanguardia. Dal 1957 al 1958 è a Londra: sono gli anni in cui dominava l’espressionismo di Bacon e Sutherland. Viaggiatore instancabile, soggiorna negli Stati Uniti, in Messico, a Cuba, in Venezuela. Da queste esperienze trae un repertorio di segni, di tecniche, che rielaborerà negli anni successivi.

Al rientro in Italia si trasferisce a Roma, dove frequenta gli artisti di punta del panorama italiano. Il ritorno a Udine, verso la metà degli anni Sessanta, consente a Celiberti di avviare un lavoro di riflessione su se stesso, che dura tuttora, ricco di esiti creativi caratterizzati sempre da una divorante ansia di sperimentazione. Nel 1965 accade un fatto destinato a modificare in senso radicale la sua arte. Visita il lager di Terezin, vicino Praga, dove migliaia di bambini ebrei, prima di essere trucidati dai nazisti, hanno lasciato testimonianze della loro tragedia in graffiti, disegni, in brevi frasi di diario e in un libretto di poesie, testimonianze toccanti della loro tragedia.Nel 1975 i Muri Antropomorfi scaturiscono dalla riflessione sui reperti della necropoli di Porto, presso Fiumicino, della Roma paleocristiana, di Aquileia romana e di Cividale longobarda. Nel 1991 Celiberti ha eseguito anche due prestigiose realizzazioni pubbliche: il Mosaico dell’amicizianell’atrio dell’Università di Lubiana e l’affresco di oltre 800 metri quadrati di superficie sulla volta dell’hotel Kawakyu di Shirahama, in Giappone.

Da New York a Monaco di Baviera, l’attività espositiva di Celiberti ha interessato tutto il mondo, evidenziando il crescente interesse del pubblico per le sue opere. L’artista vive e lavora a Udine.

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