L’elegante maestosità del Giaguaro

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Michele D'Urso

27 Novembre 2014
Reading Time: 4 minutes

Augusto Sparano

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La fantasia e la realtà, per quanto inconciliabili materialmente, spesso sono mondi in comunicazione. Capita così che nello sport spesso si associ le qualità di un atleta al nome di un animale, per indicarne a tutto tondo la relazione fisica e caratteriale. Si va dallo ‘squalo’ per il nuotatore Michael Phelps (la cui leggenda vuole che abbia battuto tanti record perché mangiava come uno ‘squalo’, ovvero una dieta ipercalorica esagerata) al leggendario ‘ragno nero’ per il portiere Fabio Cudicini, che non ha mai messo una divisa di colore diverso mentre volava da un palo all’altro ad afferrare palloni. Augusto Sparano, già campione del mondo di Full contact, possente ed elegante atleta, è detto il ‘giaguaro’. «L’accostamento con il felino – confida il diretto interessato – c’entra poco: vale di più la moda, per via di una maglietta…»

Ora le tocca entrare nei dettagli…

«Non sono arrivato subito al mondo delle arti marziali: ho cominciato a diciotto anni e dopo aver praticato atletica, canottaggio e calcio. In quest’ultima disciplina, però, già esprimevo la mia ricerca di individualità perché facevo il portiere. Quando, dopo qualche anno di pratica, cominciai a combattere, mi venne voglia di indossare una maglia leopardata di mia madre, che secondo me esprimeva al meglio, in quel contesto, il mio concetto di competizione».

Di solito un esordiente cerca di passare nell’ombra: metti che vada male, meglio evitare eventuali sfottò…

«Non è stato il mio caso perché nella vita mi sono posto sempre tante domande, e le prime sono state: “Che ci faccio qui? È questo il posto giusto per me?”. Quando ho cominciato a combattere non c’era quindi il classico: “Vediamo come va e poi si decide il da farsi”».

Sicurezza totale. Sostenuta anche dalle prime vittorie che misero in luce un talento naturale?

«Non mi ritengo talentuoso. Mi sono costruito passo dopo passo, apprendendo l’arte da grandi maestri. In ogni caso, non mi piace sciorinare il mio palmares, perché tanti altri atleti di talento possono vantarne di uguali e di migliori; dico che, ai tempi della maglietta, ciò che non sapevo era solo il livello al quale sarei arrivato, ma che le arti marziali fossero la mia vita, quello era assodato».

Allora quando ha capito che sarebbe diventato un atleta di livello, un campione del mondo?

«Nel 1985 accettai di combattere in un sotto-clou di Franz Haller, leggendario campione altoatesino dalla carriera più che ventennale, e mi scontrai con un fortissimo atleta olandese che era lì in vacanza e che aveva preso parte al contest quasi per caso. Fui sconfitto, ma il livello di agonismo e di tecnica che raggiungemmo in quel match mi diede la consapevolezza di poter salire nella cerchia dei più forti».

Un concetto quasi buddhista: “Quello che ti fa cadere ti rinforza, se hai il coraggio di rimetterti in piedi”.

«Questo non significa che io abbia fatto tutto da solo. Ho avuto grandi maestri e,  soprattutto, alle mie spalle avevo Trieste».

È molto legato alla sua città?

«Dire solo legato non rende l’idea. Certe volte, prima del match, chiamavo un taxi e mi facevo portare in palazzetto passando per la sopraelevata, così da caricarmi con le luci e le viste della città. E l’idea che la gente pagasse un biglietto per vedermi mi esaltava; mi chiedevo anche cosa riportassero, all’indomani dell’incontro, nella loro vita quotidiana. Regalare anche solo mezz’ora di emozioni, che andassero dalla gioia alla spensieratezza, mi bastava per combattere. In un film è stato detto che lo sport dovrebbe servire per migliorare l’umanità; io sento di aver fatto il mio».

Ora che non combatte più, questo messaggio riesce a trasmetterlo ancora?

«È una cosa che faccio regolarmente con i miei allievi. Nei ragazzi di oggi vedo assente il concetto che le cose si conquistano con umiltà e dedizione. Rispetto a un talentuoso che agisce per istinto io mi sono formato passo dopo passo: so come si fa a raggiungere la vetta e lo posso trasmettere».

Passaggio non scontato: tanti grandi campioni non sono poi bravi allenatori.

«Esatto. Certo i tempi corrono veloci, cambiano i modi e i metodi di allenamento, però la conquista goccia dopo goccia del risultato è una cosa che resta. Molti giovani d’oggi hanno avuto tutto in maniera troppo facile e troppo presto. Prima di diventare un campione, ne prendi di cazzotti…»

Quindi giù la testa e darci dentro?

«No, non è stato mai il mio stile. Il combattimento è anche studio, strategia, controllo di se stessi, comunicazione non verbale e tanto altro ancora. In questo senso sento di avere ancora tanto da imparare: mi sono appassionato, attraverso numerose letture, alla disciplina della ‘bioenergetica’ di Alexander Lowen, e non mi dispiace aver confronti e stimoli in questo senso».

Battute finali: se dovesse spiegare chi è ‘il Giaguaro’?

«Prima di tutto un uomo, poi un campione. Se dovessi definirmi direi: uno nella media che è andato al limite delle proprie possibilità e oltre. Anche io mi confronto con la vita di tutti i giorni, con il mio ruolo di genitore (ho una figlia), di compagno, di figlio; e come tutti ho bisogni e necessità».

La campanella finale è suonata; Augusto Sparano, uomo di ricca umanità, alias ‘il giaguaro’, il Campione di sport, ancora una volta mi ha dato sfoggio della sua grandezza. A voi il verdetto!

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