Carattere sportivo

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Michele D'Urso

23 Maggio 2014
Reading Time: 5 minutes
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Diego Zamò

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Se si consulta un qualsiasi vocabolario della lingua italiana, il termine “sportivo” viene così esplicato: “di cosa che si riferisce allo sport”. E qui si apre un campo di abbinamenti al significato della parola che spazia dall’abbigliamento, intendendo quello essenziale e comodo, privo di inutili fronzoli, al carattere, di chi non molla mai, alla filosofia di vita, di chi accetta le decisioni arbitrali quasi come eventi ineluttabili del destino.

Diego Zamò, campione di baseball nostrano, essenziale nel fisico, asciutto e muscoloso ma non voluminoso, schietto e sincero come il diretto  dell’avversario che si infila nella tua guardia, sorridente come il vincitore che non molla nemmeno quando perde, ne incarna tutti i molteplici significati, tanto che mi sento di citarlo quale esempio esplicativo del termine.

Diego, sportivi si nasce o si diventa?

«Io penso che si nasca. Sin da piccolo ho sempre praticato sport per gioire della vita. Certo, quando nel 1983, a undici anni, ho fatto il mio primo allenamento di baseball a Ronchi dei Legionari, sotto la guida del mister Alessandro Fontanot, ho anche capito che lo sport del ‘batti e corri’ sarebbe stata la mia vita, tanto ne sono rimasto affascinato e divertito».

Quindi si è formato dentro di lei una specie di motto: non avrai altro sport all’infuori di me…

«Esatto. La gioia che provo ancora oggi, quando gioco, è tale che mi sento come al mio primo giorno di tanti anni fa. Anche se gioco a tennis con passione, essere sul diamante è l’unico posto che percepisco davvero adatto a me. È una specie di magia, cantavano ‘i Queen’, difficile da spiegare».

E grazie alle Pantere Nere di Ronchi a soli 17 anni esordì in serie A.

«Fui impiegato dal mitico Luciano Miani, al secolo ‘Il Giaguaro’ del baseball, che ha fatto esordire tanti altri ottimi giocatori, come lanciatore nella partita contro la capolista. Feci rimanere a zero i loro battitori migliori, e da allora rimasi in forza alla prima squadra».

E nei Black Panthers ci è rimasto fino al 1998.

«Anno funesto quello. A causa di problemi societari scomparvero le Black Panthers con conseguente azzeramento del baseball a Ronchi. Andai così a giocare, in una forma di semi-professionismo, a Verona, pur continuando a vivere e lavorare in Bisiacaria».

Gioca sempre lanciatore, come all’inizio?

«No, col tempo sono divenuto un esterno. In realtà pur avendo il ‘braccio’, ovvero il talento del lanciatore, non mi divertivo al massimo. Correre fra le basi, intuire il movimento dell’avversario, essere sempre in tensione, attivo nell’azione, mi esalta molto di più».

Quanto è rimasto a Verona?

«Solo una stagione, giusto il tempo di vedere rinascere, anche se con il nome di New Black Panthers, la vecchia squadra del paese. Così sono ritornato qui. Un paio di stagioni di buon livello e poi nel 2002 sono andato all’Alpina Trieste, dove posso dire di aver passato un anno strepitoso, culminato, nel giorno del mio compleanno, nella convocazione in Nazionale».

Non male come regalo…

«Con la Nazionale ho partecipato a un torneo in Sicilia e ai Campionati Intercontinentali di Cuba. Poi un infortunio al ginocchio ha posto fine al periodo magico».

Quali erano i suoi punti di forza?

«Allora come oggi ho sempre avuto qualcosa in più sia nella velocità che nella potenza, nonché nella visione di gioco. Il baseball è uno sport strano: se attacchi sei da solo, se difendi sei in nove. Bisogna cambiare subito atteggiamento, se non si vuole essere fuori tempo, e io mi adeguo subito».

Quindi di passare a fare l’allenatore ancora non se ne parla?

«Ho fatto il brevetto base e l’ho trovato molto interessante, anche perché ho studiato argomenti che mi hanno dato una nuova visione di tanti aspetti dello sport, da quello anatomico a quello psicologico. Però non mi sento ancora pronto per il grande passo. Io, quando c’è la gradinata piena di gente che fa il tifo, mi esalto ancora troppo».

Prima parlavamo del suo talento di lanciatore, del suo talentuoso ‘braccio’, forte, ma così forte, che qualcuno mi ha raccontato che una volta, sotto militare…

«Prima che la cosa diventi leggenda dico subito come è andata. Nel 1993 ho svolto servizio di leva a Roma, e giocavo, sempre in serie A, con la squadra romana. Andammo alle esercitazioni di lancio con la bomba a mano e il capitano mi sfidò a chi lanciava più lontano. Il capitano era sicuro del fatto suo e disse che se avessi vinto io mi avrebbe dato tre giorni di permesso, altrimenti tutto come prima. Lanciai io per primo; c’era un po’ di foschia e la visibilità era limitata a una cinquantina di metri. La mia bomba si perse nella nebbia e il capitano non volle nemmeno tentare il tiro. Disse semplicemente “hai vinto tu”».

Un episodio da inserire nel suo palmares.

«Queste sono cose che si fanno per ridere. Quando vieni convocato in Nazionale, o nella rappresentative dell’All Star Game (ovvero la contro-nazionale, squadra formata dai migliori giocatori del torneo che però sono al di fuori della rosa azzurra) allora è tutta un’altra storia. In realtà non ho vinto molto: mi manca perfino lo scudetto. Ci sono un paio di Coppe Italia, ma non è la stessa cosa».

Il suo tifoso più accanito?

«Senza dubbio mia mamma; fino alla sua scomparsa mi ha seguito praticamente in ogni momento, fin dal primo allenamento. Poi è arrivata anche mia moglie Elisabetta a fare un tifo scatenato per me. Non mi è di certo mancato il supporto sia morale che affettuoso».

E l’America? Diventare un giocatore della Major League non le manca?

«È il sogno di tutti, ma in pochi lo realizzano. Però io mi sento felice per chiunque raggiunge tale obiettivo. Ad esempio l’acquisto di Alberto Mineo, figlio di Diego, con il quale ho giocato assieme, da parte dei Chicago Cubs, è un evento che mi rende molto orgoglioso. Uno sportivo deve saper gioire anche delle imprese altrui».

E su queste parole, che incarnano quello che dovrebbe essere lo spirito sportivo, chiudo l’intervista. E poi è chiaro a tutti che quelli come il nostro intervistato, piccola élite, di solito vengono indicati con un ilare gioco di parole che rende bene l’idea. Carattere sportivo? No; sportivo di carattere. Questo è Diego Zamò.

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