La leggenda del karate

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Michele D'Urso

24 Marzo 2014
Reading Time: 4 minutes

Davide Benetello

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È vero, tratto di sport minori, ma questo non vuol dire che io non abbia a che fare con grandi campioni, anzi. E nel caso del monfalconese Davide Benetello, leggenda del karate sportivo a livello mondiale, mi trovo al cospetto di un mito. Un mito anche di semplicità: mi accoglie con un’umiltà che tanti blasonati campioni di sport più popolari dovrebbero prendere a esempio. Sui suoi successi non si sono scritti semplici articoli, ma interi libri.

Ma tutto ciò, Davide, quando ha avuto inizio?

«Da bambino avevo cominciato, un po’ come tutti, con altri sport, dal calcio al nuoto e così via; poi da adolescente è nato in me il desiderio di trovare uno sport dove mettere alla prova ogni aspetto della mia individualità. Dopo alcune peripezie, fra cui un tentativo con la boxe, sono approdato al karate club del maestro Furlanic a Monfalcone».

Lì ha capito che non le piaceva Rocky ma Karate Kid?

«I film c’entrano poco con me. Certo erano pellicole che non passavano inosservate, e praticando karate era impossibile non essere paragonato a loro. Ma io cercavo soprattutto uno sport. Dopo un anno, lasciai il mio primo sodalizio per approdare al ‘Dojo’ del maestro Massimiliano Oggianu, dove si è sempre detto chiaramente che si pratica il ‘karate sportivo’».

Quindi l’arte marziale?

«La marzialità c’è sempre. Ci deve essere, ma io la riconosco anche ad altre attività umane».

Tipo?

«Anche un artista per antonomasia, un pittore o uno scultore, deve avere la sua marzialità, altrimenti non va da nessuna parte. Io però ho sempre ricercato e vissuto l’aspetto sportivo del karate, ovvero la competizione, il luogo dove potevo mettere alla prova tutto me stesso».

Cos’è per lei lo sport?

«È ciò che educa a migliorarsi e che insegna il rispetto degli altri. E io cercavo proprio questo: lo sport con una funzione educativa. Fra gli avversari che ho avuto ci sono i miei più grandi amici. Quando hai combattuto lealmente, rispettando le regole, la gara diventa di ‘maestria’, ed è impossibile non apprezzare le qualità di chi si ha di fronte. Quasi tutte le mie gare sono finite con un abbraccio, un gesto di affetto e di stima».

Dicono che ha molti amici: quindi ha combattuto tantissimo…

«Io sono nato nel ‘Kumite’, la forma di combattimento del karate. Ho praticato anche i ‘Kata’, la rappresentazione delle tecniche, ma agli inizi e perché dovevo completare il mio bagaglio tecnico. Poi mi sono cimentato solo nella parte che sentivo, e sento, mia».

Una scelta che le ha consentito di fare strada in Federazione.

«Attualmente sono all’interno della commissione nazionale giovanile, responsabile per il settore del combattimento maschile».

Hajime! è l’ordine con il quale l’arbitro di pedana impartisce il via al combattimento. Durante la sua carriera lo avrà ascoltato un’infinità di volte. Prima ha parlato dei suoi inizi: poi come ha proseguito?

«Ho appreso ‘l’arte’ in alcuni anni, nei quali sono approdato anche al Dojo di Udine del maestro Roberto Ruberti. Quando vinsi il Campionato italiano Speranze entrai a far parte del gruppo sportivo delle ‘Fiamme Gialle’, della cui rappresentativa sono stato membro ininterrottamente dal 1991 al 2007, diventandone anche capitano. Ma la mia è stata una carriera al ‘contrario’, nel senso che ho vinto i Campionati mondiali senior prima di quelli Italiani ed Europei».

Ma alle gare internazionali non ci vanno gli atleti già titolati?

«Solitamente è così, ma nel mio caso a cambiare le cose fu l’intuito del professor Aschieri, Direttore tecnico della Nazionale Senior: puntò su di me, spinto anche dal fatto che all’epoca i pesi massimi erano molto più rari di adesso».

Quindi si è trovato al posto giusto nel momento giusto?

«Un combattente deve esserlo, altrimenti le prende. Ho vinto il Mondiale nel 1994, e da lì, a ritroso, in senso geografico, tutti gli altri titoli».

Lei è molto conosciuto all’estero; certe sue tecniche personali sono note anche in Giappone come ‘calci alla Benetello’.

«Effettivamente ho potuto girare il mondo, sia per combattere che per tenere seminari».

Esistono anche dei ‘Benetello fan club?’

Sorride. «Io sono disponibile con tutti. L’amicizia è essenziale per avere una buona vita, e fra i miei amici annovero persone delle più disparate condizioni. Comunque sì, c’è qualche fan club, con i quali organizziamo un po’ di tutto».

Quindi non solo karate, come dimostra anche il suo ‘Guinnes World Record’ andato in onda nel programma tv dei record…

«Quello del record è stato un bel gioco e nulla più. Lo sport, se pur mi sia ritirato dalle competizioni, è la mia vita, ma in un’esistenza c’è tanto altro. La famiglia, alla quale sono legatissimo; il lavoro e anche molti altri sport: gioco a calcetto, pratico la fit boxe sotto l’insegnamento di mia moglie Debora, apprezzata istruttrice e ballerina, e pratico anche altre attività ludico-sportive».

La sua storia è partita da questa terra per estendersi al mondo e poi farne ritorno. Si sente un ‘Bisiaco doc’?

«Non voglio scontentare nessuno ma la definizione di ‘Bisiaco’ mi sta un po’ stretta. I miei sono veneti, padovani per la precisione, e ci siamo trasferiti qui che io ero un bambino. Per una strana coincidenza del destino, dato che mamma e papà avevano all’epoca un’attività stagionale al mare, sono nato a Jesolo: anche per questo tengo a dire di me che sono ‘orgogliosamente italiano’. Amo l’Italia; non per questo non apprezzo il resto del mondo, ma, proprio perché ho girato il pianeta in lungo e in largo, posso affermare che viviamo in un posto speciale».

Per uno che ha vinto tanto, cosa resta ancora da realizzare?

«Tantissimo. Da commissario tecnico vorrei vedere i miei atleti vincere di tutto e di più. Come karateka vorrei la consacrazione del karate a sport olimpico, e come uomo vorrei… Anzi vorremmo…».

Abbiamo capito a cosa si riferisce, vero? Chiudo l’intervista così, augurando a Davide Benetello, campione di karate, di umanità e di mille altre cose, come a tutti voi lettori, di realizzare i propri sogni.

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