“L’Isola del Tesoro” è una dedica di Robert Louis Stevenson per il padre e il figliastro nel quale recupera il bagaglio di storie pittoresche della sua infanzia: è un grande gioco di ragazzi, un gioco in cui la finzione della vicenda si mescola alla concretezza dei ricordi, delle sensazioni, del mare, del vento, del piacere fisico dello stare vicini a raccontarsi una storia. Bastano poche parole e subito si aprono oceanici orizzonti, la nave alza le vele e i pirati iniziano a cantare, a bere rum e ad agitare coltelli e pistole. Così vuol essere anche lo spettacolo: un gioco tra due ragazzi, in cui pochi oggetti servono a creare una scena in continua trasformazione, in cui tutto può avvenire e tutto è giocato “all’ultimo respiro”. Come in una selvaggia caccia al tesoro, come nei giochi di bande tra ragazzi, la fisicità è predominante e i mutamenti continui, perché agli eroi tutto è concesso e la morte è ancora una misteriosa fantasia. “L’Isola del Tesoro” è anche l’incontro – scontro tra il mondo dell’infanzia e il mondo adulto, un mondo confuso, in cui bene e male si confondono, un mondo oscuro, minaccioso ma incredibilmente attraente, irresistibile e inevitabile. Nel mondo dei grandi il piccolo Jim si muove un po’ come Pollicino, con astuzia e fortuna, in una sorta di complicità con il suo antagonista, il pirata John Silver. La conquista del tesoro rappresenta per Jim il raggiungimento del mondo adulto e, forse, la fine dei suoi sogni.