I paradossi della produttività

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redazione

3 Settembre 2018
Reading Time: 6 minutes

Occupazione sviluppo

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C’è una crescente e diffusa preoccupazione riguardo all’automazione e i robot che cannibalizzano posti di lavoro. L’immaginario collettivo è colpito dalle notizie su auto senza conducente, attività commerciali – dai viaggi ai beni di consumo – che offrono sempre più l’opzione di prenotare e ordinare tramite touch screen o on line, algoritmi intelligenti che forniscono traduzioni istantanee.

Ma l’economia non registra un boom della produttività trainato dalle nuove tecnologie. La produttività è un concetto economico di fondamentale importanza per la crescita dell’economia e del benessere: indica quanto output si riesce a produrre con un’unità di input, che può essere il capitale investito e/o le ore lavorate, mentre l’output è misurato con il fatturato o il PIL di un Paese. Se un’azienda, un settore, o anche un Paese, a parità di input produce più output rispetto ad altri si dice che l’azienda, il settore, il Paese sono più produttivi.

Alla fine degli anni ’90 i salari e la produttività stavano crescendo, ma la situazione ora è completamente diversa. L’occupazione cresce lentamente, mese dopo mese. Ma la crescita dei salari ristagna e lo stesso vale per la crescita della produttività. Un fenomeno che non dovrebbe sorprendere nelle economie come la nostra in cui ci sono molte persone che lavorano con bassi livelli retributivi e occupazioni precarie.

La minaccia dei robot è reale? O siamo di fronte a una distorsione cognitiva di massa che ci distrae dai veri problemi del lavoro? In generale, il problema è che abbiamo troppa nuova tecnologia o troppo poca? Forse stiamo discutendo di un problema che non abbiamo, piuttosto che affrontare una vera crisi che è l’esatto contrario. Negli ultimi 15 anni, già da prima della crisi del 2008, la crescita della produttività è rallentata, gli investimenti delle imprese sono diminuiti e la crescita dei salari è stata debole. Se la rivoluzione dei robot fosse davvero in corso, vedremmo un aumento delle spese in conto capitale e una crescita della produttività. In questo momento, sarebbe un bel “problema” da gestire. Invece abbiamo la realtà di una crescita debole in Europa, stentorea in Italia, con livelli retributivi stagnanti.

La vera preoccupazione per quanto riguarda il mercato del lavoro è che l’automazione potrebbe paradossalmente riguardare i robot, i quali non stanno facendo abbastanza “produttivamente” il loro lavoro.

È singolare che da un lato si tema che i robot assumano tutti i nostri compiti, con proposte di tassazione degli stessi, e dall’altro ci si lamenti dello stallo della crescita della produttività. Che cosa sta accadendo nel mondo reale del lavoro e delle imprese? Si può sostenere che il rapido progresso tecnologico possa implicare retribuzioni e produttività stagnanti e in calo? Come mai?

Una risposta credibile può essere che i bassi costi di manodopera scoraggiano gli investimenti in tecnologie che riducono la manodopera, riducendo potenzialmente la crescita della produttività. Talvolta ci si dimentica che le aziende decidono di sviluppare e utilizzare tecnologie in funzione dei costi che devono affrontare. Spesso lo dimentichiamo quando si parla di robot e automazione.

Oggi, i costi del lavoro sono relativamente bassi. In termini reali, la crescita dei salari è stata quasi impercettibile per la maggior parte della forza lavoro dal 2000 e, in alcuni casi, da molto prima. Il vero valore del salario minimo è piuttosto basso rispetto a quello che era mezzo secolo fa. D’altro canto è anche vero che il costo della potenza di calcolo e della memorizzazione dei dati è diminuito di molto. Poiché il costo della tecnologia è diminuito più del costo del lavoro, dovremmo aver visto prevalere fenomeni di automazione di massa. Ma il fattore scarso non è la dotazione di capitale. Ciò che è scarso e costoso è il capitale intangibile necessario per ridisegnare, revisionare realizzare e gestire i nuovi modelli di business, di produzione e di servizio abilitati dalle nuove tecnologie. È aumentata la complessità organizzativa e gestionale per far funzionare e operare questi sistemi in modo sostenibile e redditizio.

In presenza di manodopera tradizionale “a buon mercato”, le imprese si trovano in una situazione di poca pressione per realizzare questi massicci investimenti in capitale intangibile al fi ne di automatizzare i processi chiave. E chi lo fa deve dotarsi e sviluppare un capitale umano adeguato ai nuovi ruoli e professionalità richieste, scarse e costose.

La manodopera tradizionale a basso costo sta riducendo l’incentivo a spingere le nuove tecnologie lungo traiettorie virtuose da un punto di vista degli impatti economici e sociali. La rivoluzione digitale, in parte responsabile dei bassi costi del lavoro, ha creato un’abbondanza di lavoro. Se sei un’impresa e la tua forza lavoro richiede salari più elevati – o è difficile reperirla – hai molti modi per ottenere il lavoro di cui hai bisogno senza aumentarne il costo.

Puoi spostare il lavoro all’estero. La tecnologia ha consentito la crescita delle catene di approvvigionamento globali, che hanno contribuito a portare milioni di lavoratori a basso salario nella forza lavoro globale. È possibile ristrutturare la propria attività in modi che consentano a meno lavoratori più qualificati di utilizzare la tecnologia per svolgere compiti che prima richiedevano molti lavoratori meno qualificati; oppure puoi ristrutturare la tua attività in modo da ridurre il potere contrattuale dei tuoi dipendenti o ridurre i tuoi obblighi nei loro confronti. E, naturalmente, puoi automatizzare.

In che modo l’automazione contribuisce a questa abbondanza di lavoro? La storia ci insegna che a lungo termine il progresso tecnologico è sempre più capace di sostituire i lavoratori umani in una vasta gamma di compiti. Quando le imprese si trovano nel punto di indifferenza tra l’utilizzo di persone o macchine, e se le macchine (o il codice, il programma) sono abbondanti, l’effetto del progresso è quello di creare una massa di “lavoro indifferenziata”, cioè macchine equivalenti alle persone, che è molto elevata. Ma oggi c’è un modo più diretto e importante in cui l’automazione aumenta questa abbondanza. Quando una macchina sostituisce una persona, la persona non cessa immediatamente di essere parte della forza lavoro.

Non accade che si produca x usando lavoratori y-1 e quindi la produttività aumenti. No, quel lavoratore ha probabilmente molte obbligazioni a cui deve far fronte e deve quindi trovare un altro lavoro. In alcuni casi i lavoratori possono transitare facilmente da un lavoro a un altro. Ma spesso questo non è possibile. Generalmente parlando, i lavoratori spiazzati dalla tecnologia tenderanno a essere quelli con abilità o formazione indifferenziati. Questi lavoratori si trovano in competizione con molte altre persone con livelli di abilità modesti e con la tecnologia: aumenta   l’abbondanza di lavoro.

Questo è un punto critico. Proviamo a immaginare cosa succederebbe se domani l’automazione potesse fare il lavoro del 30% della forza lavoro. L’occupazione non diminuirà del 30% finché i salari non scenderanno a un livello così basso da indurre a rinunciare completamente al lavoro, facendo ricorso a qualsiasi risorsa familiare a disposizione, o fino a quando sia economico assumere persone per fare lavori a bassa produttività.

Data la struttura della nostra rete di sicurezza sociale, l’automazione tende ad aumentare la povertà e la disuguaglianza piuttosto che la disoccupazione. Che effetto ha tutto questo? Ce ne sono diversi: l’economia tenta di assorbire lavoro relativamente indifferenziato, i salari ristagnano o calano e diventa economico assumere persone per lavori a bassa produttività; l’occupazione in lavori a bassa produttività si espande, influenzando i dati sulla produttività aggregata; l’abbondanza di manodopera e le pressioni al ribasso sui salari riducono l’incentivo a investire in nuove tecnologie per risparmiare lavoro; le aziende non rinnovano/automatizzano e la produttività all’interno dei settori cresce più lentamente di quanto potrebbe; non si diffondono nuove tecnologie perché il lavoro è a buon mercato, non si sviluppano le innovazioni radicali; la creazione e l’accumulo di capitale intangibile che contribuisce alla crescita della produttività è minimo e comunque insufficiente allo sviluppo di nuovi modelli di business e dei correlati nuovi ruoli professionali e dell’occupazione di qualità; l’abbondanza di lavoro riduce il potere contrattuale dei lavoratori che si trovano a ricevere una quota di reddito in declino e non sono in grado di negoziare cambiamenti che potrebbero mitigare una fase di transizione che ha caratteri epocali; bassi salari e una diminuzione della quota di manodopera qualificata portano a squilibri macroeconomici perché più risorse si concentrano nelle mani di chi ha un’elevata propensione al risparmio, mentre diminuisce la propensione a investire; una domanda e consumi interni cronicamente deboli peggiorano le condizioni di vita dei lavoratori e generano ristagno della produttività; la bassa produttività non genera risorse adeguate ad alimentare processi di redistribuzione del reddito e ingessa le politiche fi scali, che rimangono restrittive.

Il debole miglioramento dei livelli di occupazione relativamente dequalificata e spesso precaria, con una crescita debole di salari e di produttività non sono la prova di progressi tecnologici diffusi e dirompenti; significa che stiamo imboccando un futuro del lavoro, in particolare per le nuove generazioni, che porta all’ impoverimento delle progettualità di vita e a disuguaglianze crescenti.

Una prospettiva che richiede urgentemente un profondo ripensamento dei modelli di sviluppo economico e sociale del nostro Paese.

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