Sulle tracce dell’uomo che vinse la morte

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Michele Tomaselli

1 Febbraio 2017
Reading Time: 9 minutes

La Cordillera Huayhuash

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Simon Yates è uno scalatore inglese conosciuto per le vicende raccontate nel libro Touching the Void (La morte sospesa, di Joe Simpson). Fu lui che tagliò la corda al compagno di scalata Joe Simpson durante la spedizione al Siula Grande (6344 m) nella Cordillera Huayhuash in Perù. La storia è nota: i due raggiunsero la cima aprendo una nuova via sulla parete ovest ma, scendendo per la cresta nord, lungo la via aperta dai primi salitori, incapparono in condizioni estreme tanto che Joe, provato dalla fatica, si ruppe una gamba. Malgrado la difficoltà, Simon tentò di portarlo in salvo calandolo lungo le pareti ghiacciate; tuttavia qualcosa andò storto e, dopo attimi di terrore, Simon si vide costretto a tagliare la corda alla quale era appeso l’amico. Joe riuscì comunque a sopravvivere e ritornare al campo.

La comunità alpinistica ritiene quella di Simpson una grande prova di sopravvivenza, un’importante e quasi incredibile testimonianza di vittoria della vita sulla morte. Nel 2003 il regista premio Oscar Kevin MacDonald portò questa storia sul grande schermo realizzando un capolavoro dei film di montagna. Nonostante avessi letto diverse volte il libro, non avrei mai pensato di poter anch’io trovarmi al cospetto del Siula Grande.

Lo scorso mese di luglio mi fu offerto di partecipare a una spedizione nella Cordillera Huayhuash in Perù, toccando la Laguna Sarapococha al campo base di Joe Simpson. L’itinerario mi avrebbe consentito di compiere il periplo della Cordillera Huayhuash valicando valli e zone desertiche fino a conquistare la cima del Diablo Mudo (5350 m) dinnanzi al Siula Grande. Partecipando avrei potuto confrontarmi con la natura e vivere intense sensazioni di libertà, tra lagune e passi a oltre 5000 m. Queste montagne sono diventate famose in Italia da quando, il 6 luglio del 1969, i Ragni di Lecco, guidati dal friulano Riccardo Cassin, allora sessantenne, raggiunsero il Nevado Jirishanca, (6126 m) fino allora mai salito, la vetta più alta della Cordillera Huayhuash, e la seconda cima del Perù.

Il 6 agosto 2016 arriva il giorno della partenza. Dopo la levataccia, mi trovo in aeroporto a Milano Malpensa alle 7.30 della mattina, dove prenderò l’aereo con Francesca e Gianna, mie compagne di viaggio. Al check-in riesco a imbarcare tutto l’armamentario, senza pagare il sovrapprezzo. Ci vogliono quasi 8 ore per arrivare all’aeroporto di Newark-Liberty nel New Jersey. Arrivati a destinazione, ci dirigiamo a Manhattan, nel cuore di New York. In città tutto è costoso e perfino il wi-fi dell’albergo è a pagamento. Tuttavia ci troviamo in pieno centro a due passi dalla stazione di Penn Station. Alla sera facciamo una breve passeggiata fino a raggiungere Broadway, l’ampia Avenue di New York sede di teatri e spettacoli viaggianti. Abbiamo fame ma siamo costretti a mangiare al McDonald’s visto che non troviamo altro. La “grande mela” è straordinaria con le sue strade trafficate, i marciapiedi brulicanti e i quartieri multietnici. Chiude il sipario lo spettacolo di luci riflesse sui grattacieli.

Dalle Stelle alle Stalle

L’indomani atterriamo a Lima. Ad attenderci troviamo il mitico Hans, proprietario dell’agenzia che organizza il trek. Con un taxi sgangherato arriviamo alla stamberga di questa notte. È una topaia fatiscente ubicata nella periferia della città e  frequentata da lucciole e clienti arrapati. È un via vai continuo di gente. Con difficoltà riesco a prendere sonno.

Il giorno successivo raggiungiamo la stazione degli autobus: la nostra meta è Huaraz, nelle Ande. Non è facile uscire dal centro, le strade sono intasate e il traffico non scorre. Lima è una città caotica di oltre 9 milioni di abitanti, abbastanza  pericolosa per la presenza di borseggiatori. Ci vogliono 8 ore di viaggio per arrivare a Huaraz, a 3000 m., il luogo del trekking per eccellenza. In alta stagione le sue vie brulicano di centinaia di escursionisti di ritorno dai sentieri o in procinto di partire  per una spedizione.

Dai suoi tetti si vede la Cordillera Blanca e la cima dell’Huascarán (6768 m.) la più alta montagna del Perù. Hans mi confida di esservi salito diversi anni fa e oggi si ritiene fortunato di essere sopravvissuto perché è una montagna che non perdona e ogni anno miete numerose vittime. Nei giorni successivi, per favorire l’acclimatamento alle quote più elevate, raggiungiamo la Laguna di Llanganuco, a 3900 m., alle pendici dell’Huascarán. Un posto magnifico grazie ai colori turchesi dell’acqua e ai boschi di queñual. Proseguiamo in auto fino al ghiacciaio Pastoruri a 5000 metri di altitudine. Quest’ultimo è in fase avanzata di ritiro e oggi rischia addirittura di scomparire.

Intanto, per combattere il mal di montagna, beviamo il mate de coca, un infuso a base di foglie di coca che magicamente ci fa sparire il mal di testa. Ritornando a valle intravediamo la Puya Raimondi, chiamata anche regina delle Ande, la più grande pianta della famiglia delle Bromeliaceae, endemica delle Ande, che può raggiungere i 10 metri di altezza e che prese il nome dall’esploratore italiano Antonio Raimondi.

Continuando il tour arriviamo a Yungay. Questo grazioso villaggio era stato distrutto da una valanga scesa dall’Huascarán, in conseguenza del terremoto del 1970. Guardandoci attorno ci sembra impossibile che sia stato cancellato dalla forza della natura.

Eppure i segni della catastrofe ci sono tutti: il Camposanto, memoriale per le 25.000 vittime della valanga, racconta la storia di Yungay, cittadina morta e risorta dalle proprie ceneri. L’indomani, dopo aver approfittato dell’ultima doccia calda – da adesso in poi sarà impossibile lavarsi per dodici giorni – iniziamo l’avvicinamento alla Cordillera Huayhuash. Lungo una strada sterrata a strapiombo su Rio Llmac scendiamo in auto dentro una gola strettissima fino ad arrivare a Llmac, un piccolo villaggio dove si paga dazio per il parco. Qui incontriamo la nostra squadra: Victor, una guida italoperuviana che ci accompagnerà durante il trekking, e l’arriero (mulattiere) Persie, al comando dei quadrupedi per il trasporto viveri. Proseguiamo per Pocpa (3700 m.) dove montiamo le tende. Intanto nel paese tutti fanno bisboccia e bevono fiumi di birra. Victor mi racconta che ci troviamo sul Cammino Reale, la strada dell’impero Inca, lunga 5.000 km, che anticamente metteva in comunicazione diverse città del Sudamerica, e ancora oggi nasconde segreti e tesori. Nel 2013 fu ritrovato dell’oro nei pressi della miniera di Pallca, poi sottratto da un prete, mentre altre volte fu rinvenuto grazie ad alcuni bagliori riflessi sulle montagne. Storie che hanno dato origine a racconti popolari come quello dell’angelo-alieno custode d’immense ricchezze. A conferma che quando c’è di mezzo l’oro occorre procedere… con i piedi di piombo.

Finalmente arriva il primo giorno di trekking. È una giornata fredda con molto vento. La tappa è monotona e non offre grandi scorci, si snoda lungo una strada bianca con innumerevoli tornanti fino ad arrivare a Pallca dove, oltre all’oro, si estraevano anche altri metalli tra cui l’argento, il rame e lo zinco. Victor racconta che la miniera è stata chiusa recentemente a causa dell’inquinamento. Verso l’ora di pranzo siamo al campo di Quartelhuain (4170 m.). Persie ha già montato le tende e ci rifocilla con dell’ottima minestra. Nel frattempo escono dalle nuvole alcune cime della Cordillera Huayhuash: scorgiamo il Rondoy (5870 m), il Ninashanca (5607 m), lo Jirishanca (6094 m) e lo Yerupaja piccolo.

Ormai siamo entrati nel vivo del viaggio: il programma dell’indomani prevede di arrivare alla laguna Mitucocha (4225 m.) nel cuore dell’Huayhuash. Ci svegliamo con il campo imbiancato di neve e la tenda talmente ghiacciata da impedirci di aprire le zip. La salita al passo Cacanan è impegnativa a causa della quota e delle difficoltà connesse alla respirazione. Ma a rigenerarci è la planata del gigante dei cieli: il condor, che osserviamo dileguarsi nei meandri infiniti dell’aria. Subito dopo iniziamo la discesa verso il fiume. Victor decide di proseguire sulla variante di sinistra per arrivare alle sorgenti di acqua calda dove beneficiamo di un pediluvio rigenerante. D’un tratto appare ai nostri occhi il Siula Grande (6344 m.) la montagna che vide le gesta di Joe Simpson e Simon Yates. Uno spettacolo straordinario. Arrivati al campo ci infiliamo nei sacchi a pelo e aspettiamo la cena.

Nel terzo giorno del trekking saliamo al passo Carhuac e, complice il bel tempo, ci godiamo il panorama sulla cordillera Huayhuash. Mentre scendiamo sulle rive del lago Carhuacocha osserviamo un gruppo di viscaccie (mammiferi roditori) spostarsi verso alcune impronte fossili di ammoniti. Il campo di quest’oggi è magnifico e le montagne si specchiano nel lago creando un effetto mozzafiato. Il giorno seguente, con un giro molto faticoso, attraversiamo le lagune Gangrajanc, Siula e Quesilococha, fino a valicare il passo Siula a 4900 metri dove, grazie a uno strano gioco della natura, osserviamo le tre lagune in successione. Più tardi cominciamo a scendere verso il campo di Huayhuash sotto il peso della grandine.

La tappa dell’indomani è breve con un ambiente diverso da quello dei giorni precedenti; arrivare al passo Portachuelo è semplice ma Gianna è affaticata e non riesce a salire a cavallo. Ha il mal di montagna, tossisce in continuazione e ha bisogno di essere accompagnata a quote più basse. Purtroppo sia mo senza telefono satellitare e Cajatambo, il paese più vicino, dista 30 chilometri. In questa situazione ci rendiamo conto che sarà difficile chiedere aiuto. Victor decide così di scendere a Cajatambo certo che la mattina seguente sarebbe arrivato al campo con un’automobile, così da portare Gianna a valle. Rassicurato dalla sue parole non mi resta che tuffarmi nelle pozze termali di Viconga. L’acqua è calda e mi immergo fino al collo. Nuotare a 4200 metri è una strana sensazione.

All’alba dell’indomani vedo spuntare Victor dalla brughiera. Ce l’ha fatta. È riuscito a scovare un mezzo e portarlo qui vicino. Così, dopo aver fatto colazione, carichiamo Gianna sul cavallo e ci dirigiamo all’automobile. È triste vederla andar via ma ha assoluto bisogno di scendere più in basso. Ritornati alle tende saliamo al passo Cuyoc a 5.000 metri. Il sentiero è ripido e impegnativo ma offre scorci a 360 gradi sulle Cordillere Raura e Huyhuash e in particolare sul Diablo Mudo (5350 m): il nostro prossimo obiettivo.

Nel frattempo la discesa mette a dura prova le nostre orecchie, assordate dallo scampanellio di centinaia di mucche presenti al pascolo. Nel pomeriggio arriviamo a Huanacpatay e ci accampiamo vicino a una roccia a forma di elefante. Il giorno dopo saliamo al Mirador S. Antonio a un’altitudine di 5000 metri; sulla sua sommità il panorama è interminabile e sembra quasi di toccare il cielo, l’aria è frizzante e le nuvole passano talmente veloci da farci sembrare immobili. In discesa assistiamo a uno spettacolo grandioso dirimpetto ai ghiacciai del Siula Grande e del Nevado Yerupaja. Dopo pranzo m’inoltro a cavallo nella valle di Sarapococha, per giungere al campo di Joe Simpson, ai piedi del Sarapo (6127 m). Dopo un tratto iniziale piuttosto ripido entro in una valle selvaggia fino a pervenire alla pietra che ricorda la spedizione.

Siamo giunti all’ottavo giorno del trekking e approdiamo a Huayllapa: il villaggio è grazioso e ci dà l’opportunità di incontrare il popolo quechua. Prima di affrontare la faticaccia dell’indomani (2000 m. di dislivello) e l’ascensione al Diablo Mudo, decido di andare a dormire in un letto come si deve nell’alberghetto del paese. Potrò così caricare “le batterie” dopo tanti giorni di supplizio in tenda. La cura del sonno funziona e al risveglio mi trovo in condizione fisica smagliante, tanto da distanziare tutti gli altri mentre salgo al Passo Tapush (4750 m.).

In discesa, lungo le rive del lago di Gashapampa, osservo il ghiacciaio e la via di scalata che ci impegnerà durante la notte. Più tardi, giunti al campo, andiamo a dormire presto obbligati dalla levataccia prevista nel cuore dell’oscurità. Tuttavia non riesco a prendere sonno: il freddo mi penetra nelle ossa e la sveglia delle ore 2 mi sembra una liberazione. Muniti di pila frontale, partiamo in fila indiana verso il ghiacciaio. Qui ci leghiamo e cominciamo a salire in conserva con l’uso di piccozza e ramponi. Il freddo si fa sentire ma anche la fatica, specialmente al di sopra dei 5000 metri, quando dobbiamo superare i primi penitentes. Queste meraviglie gelate, alte anche due metri, assomigliano a strane lance e a figure incappucciate, ma rendono l’avanzata un inferno. A rigenerarci è la magia dell’alba che illumina, a poco a poco, le montagne della Cordillera Huyhuash. Finalmente, dopo 9 ore di scalata, siamo sulla vetta del Diablo Mudo a 5350 metri. Ce l’abbiamo fatta.

Ci abbracciamo e urliamo di gioia, ma i nostri pensieri vanno ai nostri cari e agli amici che non ci sono più. E poi, non bisogna cantare vittoria troppo presto: dobbiamo ancora affrontare la lunghissima discesa per la laguna Jahuacocha, alla fine del nostro viaggio.

Tutte immagini indelebili che accompagneranno la conclusione del trekking. Prima di imbarcarmi per l’Italia, tuttavia, ho ancora del tempo per togliermi un altro sfizio: assaggiare la pachamanca, il piatto tipico andino preparato con carne di  agnello, manzo e capra e cucinato sotto terra. Una prelibatezza…

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