Capotreno e gentiluomo

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Michele D'Urso

15 Luglio 2016
Reading Time: 5 minutes

Paolo Fonda

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Cari lettori, per introdurre il triestino Paolo Fonda, classe 1942, autentico e verace ‘gentleman’ dell’arte della remata, prendo a prestito, modificandolo, il titolo del famoso film ‘Ufficiale e gentiluomo’, perché questa copia triestina di Paul Newman avrebbe potuto essere protagonista di un film.

«Ai tempi della Nazionale – confida Fonda – avrei davvero potuto fare l’attore; era il tempo degli ‘Spaghetti western’, e gli atleti erano molto richiesti per quel tipo di ruoli. Carlo Pedersoli, al secolo Bud Spencer, è un chiaro esempio di ciò. Inoltre ero nei primi mesi di leva nei Granatieri di Sardegna, e diversi talent scout cercavano comparse per Cinecittà: un mio caro amico genovese iniziò proprio così la carriera di attore».

Si riferisce a Luigi Montefiori, ora conosciuto come George Eastman…

«Esatto, ma stare davanti alla macchina da presa non faceva per me. Risposi così alla convocazione al Centro Remiero FFAA di Sabaudia per provare a essere atleta di vertice anche se ne avevo altri davanti più forti. All’età di vent’anni, invece, sono stato assunto nelle Ferrovie, anche se prima ho svolto diversi lavoretti: scaricatore,   magazziniere, commesso, autista… A quei tempi il lavoro ti cercava».

In Italia quello dei rematori è considerato uno sport minore…

«Non sono d’accordo, perché per me lo sport minore è quello fatto senza sudare, presentandosi in ritardo in allenamento e ‘tirandosi indietro’ quando serve come facevano tanti calciatori che venivano ad allenarsi al ‘Grezar’ a Trieste assieme a noi. Quello è da sport minore».

Carattere deciso.

«Non ho mai sopportato chi imbroglia, chi si lamenta senza motivo. Sono nato a Trieste per “trasferta” materna. Noi abitavamo a Capodistria, allora sotto la “stella rossa”, e abbiamo dovuto abbandonare nel 1950 casa, campagna e arredi: di motivi per lamentarmi ne avrei avuti, ma non l’ho mai fatto. Sono stato educato così».

In che senso?

«Mio padre non ha mai giudicato nessuno e io ho fatto altrettanto. Per me il gusto per l’impegno non è genetico ma viene esplicato da un certo tipo di educazione. Gli Istriani erano profughi, ma si sono risollevati; i Friulani hanno avuto tutto distrutto dal terremoto, ma hanno ricostruito rimboccandosi le maniche senza stare troppo a compiangersi».

Ciò che di fatto insegna lo sport…

«Infatti. Non bisogna attendere i disastri per mettersi alla prova, per migliorarsi e stare bene con se stessi. E questo è il vero messaggio dello sport in senso lato, non le quotazioni delle scommesse. Io, in pieni anni Cinquanta, periodo di quasi fame, per stare bene ho cominciato praticando nuoto e pugilato. La gioventù dell’epoca non era mai ferma».

Perché è passato al canottaggio?

«La boxe mi piaceva e nella palestra del Maestro Culot avevo ottimi tecnici, ma proprio lì venni indirizzato a fare una prova coi remi al Circolo MM dove Culot era uno degli allenatori più famosi e severi. Da lì poi tutto è nato spontaneo. Rispetto al nuoto o alla boxe, in barca vedi il panorama, puoi salutare qualche bella ‘mula’ che prende il sole sulla riva… Nel nuoto non vedi nessuno, e nella boxe, se pensi alle ragazze, ti ritrovi subito col naso come un peperone».

E così arrivò il titolo italiano di canottaggio…

«Nel 1960, alla terza regata nella categoria ‘2 Con’ con il Dopolavoro FFSS di Trieste sono stato subito campione italiano ‘Ragazzi’ (l’odierna categoria ‘Juniores’). Facemmo la preparazione per le Olimpiadi di Tokio 1964, ma non riuscimmo nell’impresa. Comunque l’esperienza fu ampiamente positiva: trasferte, anche all’estero, regate memorabili e soprattutto amicizie preziose, come con l’equipaggio formato da Baran, Sambo e Cipolla, che vinsero la medaglia d’oro nell’Olimpiade successiva, quella di Città del Messico 1968».

Mentre lei divenne Capotreno delle Ferrovie.

«Ero già in Ferrovia prima di andare militare, e nonostante turni di lavoro, famiglia e impegni sociali, non ho mai smesso di praticare il canottaggio, con i complementari di corsa e bici, fino a sei anni fa, quando problemi cardiaci mi hanno costretto a fermarmi. Le regate ‘Master’ sono più per tenersi in forma che per gareggiare, ma il contatto col mare, col proprio corpo che lavora e suda, sono emozioni impagabili anche se lo si fa per diporto, rimanendo nell’ambiente dove conta come sei e non chi sei».

Ha mai pensato di allenare?

«Ho fatto anche quello. Ho conseguito il patentino di allenatore di 2^ categoria e ho collaborato a lungo con la mia società, il Saturnia, che attualmente è fra le prime in Italia. Anzi, per i risultati 2015, ha conquistato uno storico primo posto».

L’episodio che ricorda più volentieri?

«Per ridere dico che ho battuto Giampiero Galeazzi, il famoso cronista sportivo. Lui è di qualche anno più giovane, gareggiava a buon livello e aveva un notevole appetito. Ricordo che eravamo a una Internazionale sul Lago di Bled nel ’66: io vi ero arrivato con la mia Fiat 500 nuova; Galeazzi venne a fare un giro con me e subito mi chiese dove si poteva andare a mangiare qualcosa…»

E lei ha ancora una Fiat 500?

«No, ma una come nuova l’ho regalata a uno dei miei figli lo scorso anno. Ne ho anche restaurate un paio. Ho  avuto da sempre la passione per la meccanica e per le moto, arrivando ad averne una piccolissima collezione della quale mi sono pian piano quasi disfatto per problemi logistici, oltre che burocratici. La mia prima moto fu una ‘Rumi’ comprata, a 16 anni, in società con un amico. Ho posseduto anche Vespe, Cuccioli e Mosquito… Con le Moto Guzzi ho girato mezza Europa. Ora mi diletto ancora a restaurare biciclette».

Barche niente?

«Anche quelle, ovviamente! Mio padre e mio zio, quando vivevano in Istria, le barche le costruivano…»

Come vede il futuro del canottaggio?

«Bene, sia a Trieste che nel resto d’Italia. Abbiamo atleti di valore, però ci vorrebbe qualche attenzione in più. Per esempio a Trieste non esiste più un campo di regata completamente rettilineo; l’unico in regione che possa dirsi tale è a San Giorgio di Nogaro».

Non resta altro da dire. L’incontro con Paolo Fonda è stato un viaggio totale, olistico. Lo ringrazio delle sue parole che hanno portato sullo schermo della mia mente mille immagini, colorite emozioni di gioia, speranza e grinta. Proprio come quando Galeazzi commentava l’impresa degli Abbagnale: “E c’è luce, c’è luce e andiamo a vincere!”

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