In ascolto della natura

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Margherita Reguitti

14 Marzo 2016
Reading Time: 5 minutes

Devis Bonanni

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Devis Bonanni (classe 1984) a Raveo, in Carnia, 10 anni fa ha fondato “Pecora Nera”, una fattoria, oggi di un ettaro, dove vive e lavora assieme alla compagna Monica. Da tecnico informatico a contadino e scrittore; iniziando da zero con l’obiettivo di produrre cibo sano e vivere in modo più naturale. Una scelta che Devis condivide con le persone che lo vanno a trovare, sul suo blog e con chi legge i suoi libri.

Dieci anni fa la decisione di cambiare vita: lasciare un lavoro fisso di informatico per fare il contadino. Ribellione o chiarezza di visione?

«C’era quella componente di ribellione che attraversa tutti i giovani, innestata su una sensibilità ai temi ambientali. Oggi guardando indietro vedo tutto molto chiaramente, ma dieci anni fa inciampai in alcuni input positivi: per esempio lessi un articolo che parlava di autosufficienza alimentare, di come organizzare una fattoria di due ettari per mantenere una famiglia. Poi dopo la maturità decisi di visitare un ecovillaggio, la Comune di Bagnaia».

Quanto è grande la sua proprietà e che cosa coltiva?

«Circa un ettaro. Con la mia compagna coltivo le cose più disparate in ottica di autoconsumo e piccolo commercio. Dalla frutta, soprattutto mele e pere, ai cereali come frumento, farro, orzo e segale. Facciamo il pane in casa. Abbiamo varietà locali di mais da polenta e fagioli. Per anticipare e prolungare la stagione utilizziamo un paio di serre. Qui a 500 metri di altitudine ci sono alcuni limiti ma è comunque possibile avere una discreta varietà di ortaggi. Posso affermare che raggiungiamo un 70-80% di autoproduzione».

Come sono le sue giornate?

«I ritmi sono dettati dalle stagioni e dalle condizioni meteo. In questo senso non esistono domeniche o cartellini da timbrare. Lavoro oggi molto più di quand’ero un tecnico informatico ma la motivazione è diversa quando si porta avanti un progetto in  cui si crede anziché svolgere mansioni in cambio di uno stipendio. I lavori sono tra i più vari e non faccio mai la stessa cosa al mattino e al pomeriggio».

Nel 2012 il primo libro “Pecoranera”, a fine 2015 il secondo “Il buon selvaggio”. La scrittura è una dote riemersa o una voglia di condivisione?

«Scrivere il primo libro è stato un evento assolutamente inatteso. La casa editrice Marsilio per cui ho pubblicato aveva intercettato il mio blog e ha fiutato i tempi maturi per raccontare una scelta di decrescita e downshifting (termine che indica la rinuncia a una car riera stressante per una vita più gratificante, ndr). Tuttavia è pur vero che avevo un blog e già stavo  condividendo la mia esperienza on line. La condivisione e la comunicazione delle mie scelte è sempre stata un punto cardine della mia azione. A che pro ritirarsi in un eremo senza partecipare a un cambiamento di più ampio respiro?»

Contadino, scrittore, ricercatore, sperimentatore: come si definirebbe?

«Il mio universo personale ha queste due solide colonne: i campi e i libri, azione e riflessione, esperienza diretta e costruzione di significati astratti. Una passione completa che alimenta l’altra. Il mio agire è simbolico e concreto».

Ne “Il buon selvaggio” emergono letture impegnative: il suo filosofo di riferimento, Thoreau, de Mirabeau, ma anche Toro Seduto, Kissinger e citazioni di film. La sua è una cultura onnivora?

«Per scriverlo ho cercato stimoli e riferimenti in ogni campo. Prima è stato un percorso non premeditato poi, quando l’idea del libro si è delineata, sono andato in cerca delle informazioni che mi mancavano. Pubblicato il libro, sfinito da troppa saggistica, mi sono rifatto con mesi e mesi di sola narrativa».

Nel libro lei approfondisce il tema dell’alimentazione; c’è un modo di nutrirsi ideale?

«C’è ma non lo conosciamo e, se lo conoscessimo, non lo metteremmo in pratica. Per gli animali alimentarsi fa parte della sfera istintiva e dunque scelgono secondo natura. Per noi umani è anche cultura, convivialità, emozione. Il dibattito è ancora fresco perché solo da cinquant’anni, dall’epoca dei supermercati e del crollo del mondo agricolo dei nostri nonni, ci chiediamo cosa mangiare. Prima, per centinaia di migliaia di anni, il problema è sempre stato come riuscire a non morire di fame».

In passato ha sofferto di disturbi alimentari: che rapporto c’è fra lo stare bene e il cibo?

«Di me stesso dico sempre che sono una persona normopeso sull’orlo dell’obesità. Il mio percorso alimentare è stato piuttosto accidentato. A diciott’anni non mangiavo praticamente nessuna verdura. Durante gli anni dell’ufficio arrivai a superare i cento chili. Ho incarnato uno stile di vita completamente sbagliato, figlio dell’abbondanza, e oggi pratico il suo opposto. Al centro della mia esperienza, che forse si potrebbe definire di autoguarigione (non ho mai consultato un dietologo), c’è il continuo interrogarsi sull’influenza dell’alimentazione sul mio copro e sulla mia sfera emozionale. Non ho una ricetta universale ma un suggerimento sì: non mangiate in maniera automatica, ne va della vostra vita».

Ogni anno ospita nella sua fattoria persone che in cambio di vitto e alloggio lavorano con lei. Che mondo le portano questi ospiti?

«Le persone che arrivano mi aiutano a comprendere la grande fortuna di abitare una terra ancora incontaminata dove l’agricoltura industriale, per motivi pedoclimatici ed economici, non è penetrata. Attraverso i loro occhi ho riscoperto la bellezza che davo per scontata».

Niente auto, solo bicicletta, niente televisione. Ma sì alla rete?

«Credo di avere un approccio laico alla tecnologia. Non ne possiamo fare a meno dato che la usiamo dai tempi della clava e quindi tanto vale cercare di utilizzarla al meglio. La televisione è un media piuttosto impositivo e centralizzato, c’è un editore che sceglie i contenuti e un utente che ne fruisce. Internet è invece piuttosto democratico perché si può essere al contempo produttori e consumatori di contenuti. Io credo che la democrazia affondi meglio le radici in mezzi democratici in quanto diffusi e accessibili. Così migliaia di impianti solari sono più democratici di una centrale nucleare, la riproduzione delle sementi locali è più democratica delle grandi ditte sementiere, le filiere agricole regionali sono più sostenibili e meno inique delle commodities agroalimentari quotate in borsa».

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