Semplicemente Poz

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redazione

6 Marzo 2015
Reading Time: 5 minutes

Gianmarco Pozzecco

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La voce dall’altro capo del telefono è inconfondibile, ma il tono evidenzia i mille pensieri che attanagliano la mente. «In questo momento avrei dovuto essere a casa, invece sto andando a trovare un mio giocatore che si è appena infortunato». Un cambio di programma che racchiude l’essenza del Poz 2.0, il Gianmarco Pozzecco che dopo aver infiammato i parquet d’Italia e d’Europa da giocatore sta provando a fare altrettanto da allenatore. Anche se la strada è tortuosa, come dimostrato dalle sue dimissioni dalla panchina della Pallacanestro Varese, pochi giorni dopo questa intervista.

Partiamo proprio da qui: com’è la vita da coach?

«Completamente diversa da quella del giocatore. Per un allenatore, paradossalmente, le partite e gli allenamenti sono i momenti più semplici. Ciò che comporta maggiore stress è vivere il basket 24 ore su 24, affrontando e cercando di risolvere le problematiche che possono emergere fuori dal campo. Un coach non stacca mai. Ma, intendiamoci, poter svolgere questo mestiere è un privilegio».

A proposito, Gianmarco Pozzecco quando ha capito che sarebbe diventato un allenatore?

«Non c’è stato un momento preciso. Però è stato decisivo un consiglio di Recalcati (per anni coach di Pozzecco in Serie A e in Nazionale, ndr): mi spronò a conseguire la tessera da allenatore. Da lì tutto è stato naturale: dall’approfondimento sul gioco all’opportunità dell’esordio sulla panchina di Capo d’Orlando».

A 35 anni molti giocatori calcano ancora i parquet più prestigiosi. A quell’età lei ha invece deciso di ritirarsi dal basket giocato: perché?

«Ho capito che non avrei più potuto garantire quelle prestazioni di alto livello che hanno contraddistinto la mia carriera. Spesso l’ultimo ricordo che abbiamo di una persona è quello che portiamo dentro di noi nel tempo. Nel mio caso, ancora oggi vengo ricordato per un giocatore dalle performance importanti. Per questo non sono pentito della mia scelta».

Dalla fine all’inizio: Pozzecco quando ha iniziato a giocare a pallacanestro?

«Nella mia memoria non esiste un Gianmarco senza la palla da basket. È come chiedere a qualcuno “Quando hai iniziato a camminare?”. I primi ricordi che ho di me sono sempre nell’ambito della pallacanestro: forse perché sia mio padre che mio fratello giocavano a basket e mia madre mi portava da una palestra all’altra».

Quasi inutile chiedere quando ha capito che sarebbe diventato un giocatore professionista…

«Credo che la mia fortuna sia stata quella di essermi sempre divertito a giocare e questo ha reso tutto naturale. Ho giocato tra i dilettanti praticamente fino ai vent’anni, quando passai da Cividale in C2 alla Rex Udine in Serie A2. Può sembrare strano, ma quel passaggio tra i professionisti non fu per niente traumatico perché continuavo a fare ciò che più amavo: giocare a pallacanestro».

Era il 1991. Ventiquattro anni dopo nelle serie del basket che contano non c’è più traccia di compagini del Friuli Venezia Giulia: secondo lei perché?

«Difficile da dire, anche perché Trieste, Gorizia e Udine sono città dove l’interesse per la pallacanestro è molto forte, con vivai importanti che ancora oggi continuano a sfornare talenti. Ci vorrebbe la volontà di qualche grande imprenditore disposto a investire in questo sport per riaccendere un entusiasmo che alla base esiste ancora. Io sono nato a Gorizia, cresciuto a Trieste e ho giocato a Udine: spero davvero che il grande basket possa ritornare in queste città».

Usciamo dal parquet: Gianmarco Pozzecco che rapporto ha con il Friuli Venezia Giulia?

«Purtroppo ci torno poco, la mia carriera mi ha reso un nomade… Scherzi a parte, quando riesco a tornare a casa trascorro il tempo in famiglia con i miei genitori, con mio fratello e sua moglie e con i miei nipoti. Però amo il bollito, e una cappata da “Pepi Sciavo” (locale del centro di Trieste, città dove vive la sua famiglia, ndr) non me la perdo. Così come mi gusto il viaggio in macchina lungo la strada costiera: ogni volta mi regala sensazioni indescrivibili».

Torniamo al basket: come giudica lo stato di salute della pallacanestro italiana?

«Sicuramente non buono, ma non siamo dei malati terminali. Questo è il momento di prendere delle decisioni forti proprio perché non c’è nulla da perdere. Imporre un numero maggiore di italiani all’interno delle squadre professionistiche credo debba essere un primo punto di partenza in tal senso per avere un futuro più roseo investendo sui giovani».

A proposito di giovani, per molti di loro Gianmarco Pozzecco è ancora un mito. A quelli che vorrebbero ripercorrere le sue gesta che consiglio darebbe?

«Oggi i ragazzini fanno più fatica a sognare di diventare un giocatore di basket. La società che allenavo ha sei americani in rosa. Quando iniziai a giocare io le squadre erano composte da due stranieri e otto italiani e i giovani dei vivai potevano ambire a occupare uno di quegli otto posti. A prescindere da questo, il mio consiglio è di vivere la pallacanestro con passione. Prendo a esempio mio fratello: attualmente gioca nel torneo “Uisp” (Unione italiana sport per tutti, ndr) e non è mai stato un professionista, eppure a lui il basket ha dato tantissimo in termini di soddisfazioni, relazioni e amicizie».

Le chiedo di sdoppiarsi: il coach Gianmarco Pozzecco come definirebbe il giocatore Gianmarco Pozzecco?

«Sicuramente connesso. Nel senso che prendevo molto seriamente la pallacanestro: tra vincere o perdere c’era per me una differenza enorme. Però non avevo capito tutto: se potessi tornare in campo adesso sarei un giocatore diverso e più abile in determinati aspetti, come ad esempio la difesa».

E se dovesse fargli un complimento?

«Gli riconoscerei l’amore per la maglia. Ha giocato in poche squadre e ce n’è una in particolare – Varese ovviamente – la cui divisa è come tatuata sulla pelle».

Per il Pozzecco giocatore, invece, qual è stato il momento più bello della carriera?

«Paradossalmente il momento in cui ho smesso. In quegli attimi mi sono reso conto davvero di aver avuto una carriera bella ed entusiasmante, ripagata dall’affetto della gente. Lì ho capito di aver ricevuto tanto, ma anche di aver dato molto».

Il giocatore che più ha apprezzato?

«Andrea Meneghin. Insieme abbiamo vissuto i momenti più belli della nostra vita».

E il coach?

«Carlo Recalcati, ancora oggi è per me un punto di riferimento importante».

Per Gianmarco Pozzecco cosa significa essere allenatore?

«Significa mettere i miei giocatori nelle condizioni di poter vivere quello che ho vissuto io. Il mio obiettivo è vederli felici per quello che fanno. In altre parole, far loro vivere la pallacanestro con passione».

Chiusura con vista sul futuro: cos’altro desidera dalla vita?

«Un figlio».

 

Gianmarco Pozzecco è nato a Gorizia il 15 settembre 1972. I risultati più importanti della sua carriera da giocatore li ha ottenuti con la Pallacanestro Varese, con cui ha vinto lo Scudetto nella stagione 1998/99 e la Supercoppa italiana l’annata successiva. Nel 2004 ha conquistato la medaglia d’argento con la Nazionale all’Olimpiade di Atene. Il 15 maggio 2008 ha disputato la sua ultima gara da professionista con la maglia di Capo d’Orlando. Società con cui nel 2012 ha iniziato la carriera da allenatore. Questa stagione è stato il coach della “sua” Pallacanestro Varese in Serie A, fino alle dimissioni dello scorso 24 febbraio.

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