Oltre lo scatto

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redazione

31 Dicembre 2021
Reading Time: 8 minutes

Intervista a Claudia Guido

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L’ultimo premio internazionale conquistato in ordine di tempo è quello del TIFA (Tokio International Foto Awards), nella categoria “Natura”.

Tuttavia i soggetti che la fotografa Claudia Guido preferisce immortalare sono le persone. Una passione nata grazie a suo nonno e che, come ci racconta in questa intervista, ha contaminato la sua vita.

Claudia Guido, come si trova una veneta in Friuli Venezia Giulia?

«Ho scoperto la bellezza di questa regione solo quando mi ci sono trasferita. Apprezzo molto il ritmo del vivere qui, scandito da pause verdi e dal privilegio di poter andare anche ogni giorno a tuffarmi in questo splendido mare. Sono invece un po’ nostalgica per quanto riguarda l’offerta culturale e il divertimento proposto non solo a Padova, ma anche a Firenze, dove ho vissuto diversi anni prima di trasferirmi qui».

Lei vive e lavora a Monfalcone: come giudica la città?

«Monfalcone è una cittadina che avrebbe un enorme potenziale come ci hanno suggerito le recenti olimpiadi di Tokio. La diversità è una ricchezza e io adoro uscire di casa e sentir parlare talmente tante lingue diverse da non riuscire a riconoscerne qualcuna. Vorrei che ci fossero più possibilità di socializzare e di favorire l’integrazione, penso sia una splendida opportunità che andrebbe colta. E poi c’è il mare. Se tutto andrà bene però mi sposterò da Monfalcone e andrò a vivere a Gorizia: sono entusiasta e innamorata della casa che ho trovato, ma non è stata una decisione presa facilmente».

Laureata in fotografia all’Università di Firenze: questo percorso di studi quanto è stato determinante per la sua carriera professionale?

«Quello dell’Università è stato uno dei periodi più entusiasmanti della mia vita. Mi ero trasferita da sola a Firenze, non conoscevo nessuno e avevo abbastanza curiosità da non aver nessun timore ma solo voglia di scoprire. Ho avuto un professore, Lorenzo Giotti, talmente bravo a insegnare e ad appassionare che ho continuato ad andare alle sue lezioni anche post laurea. I miei maestri sono stati tanti, tutti fondamentali, e spero ce ne saranno sempre di nuovi. Forse la verità è che la mia vera passione è imparare, migliorare, prima ancora di fotografare».

Cos’è per lei la fotografia?

«La risposta convenzionale è che la fotografia sia un linguaggio ma ora credo che la fotografia sia molto di più. La fotografia è diventata una parte fondamentale delle nostre vite. Non ha solo il valore di essere memoria, identità e racconto. Pensate alle ecografie e a tutti gli esami medici strumentali il cui risultato è una fotografia. O pensate alla possibilità che abbiamo di studiare cose che il nostro occhio non vede, come l’universo. Certo, lo strumento di osservazione è fondamentale, ma per mostrarlo anche agli altri abbiamo bisogno di una fotografia. Mi affascina molto questo ruolo della fotografia nella nostra quotidianità».

Quando è nata in lei la passione per la fotografia?

«Da bambina. Mio nonno era un fotografo amatore paesaggista. Ogni volta che io e mia sorella andavamo dai nonni il primo posto da esplorare era l’armadio delle fotografie del nonno. Passavamo ore a sfogliare i suoi album e credo che questo sia stato l’inizio del mio grande amore per la fotografia».

Ricorda la prima foto che ha scattato?

«No, ma ricordo la prima con la reflex analogica di mio nonno. Ero una ragazzina, volevo imparare a fotografare e gli ho chiesto di insegnarmi. Siamo andati in centro città, mi ha messo in mano la sua reflex e ha iniziato a spiegarmi le basi, indicandomi gli scorci più belli di Padova per farmeli fotografare. Io però sentivo una sorta di resistenza, come una mancanza di interesse per il soggetto. Quindi a un certo punto gli ho chiesto se poteva posare per me e ho messo a fuoco lui invece del paesaggio. Sicuramente è stato il primo indizio: volevo fotografare le persone».

Quando ha deciso che la fotografia sarebbe diventata la sua professione?

«Alla fine del liceo ero in crisi sulla scelta del percorso di studi. Avevo amato il disegno ma, complice una pessima insegnante alla fine dell’artistico, mi ero allontanata da quella disciplina fino ad arrivare al rifiuto. La fotografia è stato un modo di risolvere quella rottura. Potevo continuare a esprimermi senza necessariamente disegnare. La decisione di renderla una professione non è stata un’illuminazione, è stato il naturale svolgimento degli avvenimenti».

A proposito di professione: come sono stati gli inizi?

«Ho iniziato con uno stage presso un grosso studio di matrimoni a Firenze. Sapevo già che non volevo perseguire quella strada ma i fotografi che lavoravano in quello studio erano bravissimi e ho pensato – bene – che avrei potuto imparare moltissimo da loro. In quello studio ho incontrato Maurizio Degl’Innocenti, mio relatore esterno alla laurea. Un fotografo giornalista bravissimo, divertente, che mi ha fatto rendere conto di quanto avessi ancora da imparare e per fortuna mi ha dedicato del tempo insegnandomi tantissimo. Poi ho dovuto lavorare a lungo per potermi permettere l’attrezzatura necessaria a svolgere questa professione e un passo alla volta sono riuscita a diventare una fotografa professionista».

Ci sono quelli che fotografano matrimoni e prime comunioni, quelli che fanno foto-ritratto su commissione, quelli che scattano foto a eventi internazionali, quelli che scattano foto in scenari di guerra… Tutti, seppur con sfaccettature diverse, hanno fatto della fotografia la loro professione. Per Claudia Guido cosa significa essere una fotografa di professione?

«Purtroppo c’è molta confusione in questo. Essere professionista significa semplicemente avere una partita IVA e pagare le tasse. Non ha niente a che vedere con la qualità del proprio lavoro, ma solo con l’essere in regola».

Da alcuni anni lei partecipa a concorsi internazionali ottenendo risultati di prestigio: come mai questa scelta?

«Ho iniziato per capire se ero vittima dell’effetto Dunning-Krouger che è una curiosa distorsione cognitiva in cui è molto facile cadere se si lavora in campo creativo. Sostanzialmente i due sociologi che hanno descritto questo effetto spiegano che persone poco esperte in un determinato campo tendono a sopravvalutare le proprie capacità. Ma è vero anche il contrario: chi è esperto tende a sottovalutarle. E allora ho pensato che l’unico modo oggettivo di capire se stavo lavorando bene era farmi giudicare da chi è sicuramente più esperto, accettandone i risultati ed eventualmente lavorando sulle mie lacune. Per questo motivo ho iniziato a partecipare con le foto scattate per lavoro, non con opere create ad hoc. I risultati sono stati in crescita: a ogni concorso un risultato migliore e questo non mi stupisce. I concorsi seri sono una grandissima scuola se si è pronti ad accogliere il risultato e a lavorare per migliorarlo».

Il fotografo, lo strumento, il soggetto, l’ambiente circostante: per la realizzazione di una bella foto uno di questi elementi è più importante di altri?

«Direi che l’elemento più importante è il contenuto. Lo strumento è quello più irrilevante. Ho vinto i premi più importanti utilizzando l’attrezzatura più scarsa che ho: è stato un caso, ma significativo».

Per Claudia Guido quando è bella una foto?

«Questa è una domanda troppo difficile. Potrei dire che le foto che mi interessano di più sono quelle che hanno senso di esistere, ma non basterebbe. C’è ovviamente una produzione eccessiva di foto, ma chi sono io per dire agli altri cosa fotografare o perché? Mi appassiona la dedizione che si percepisce in alcune fotografie, come anche la capacità comunicativa di alcuni fotografi, il coraggio, la difficoltà risolta. Mi stregano le fotografie che non so – ancora – fare, oppure quelle oneste. Adoro le fotografie con più di un significato, che ti spingono a ragionare o anche quelle che ti colpiscono in pancia. Mi piace il lavoro di chi riesce a esprimersi con uno stile davvero suo, frutto delle tante contaminazioni quotidiane e di studio, ma che fa qualcosa di diverso, di nuovo, anche sconsiderato. La fotografia è un’arte che ha moltissimo da offrire e per fortuna esistono tanti autori interessanti».

Quando le viene commissionata una foto, è importante che lo scatto finale piaccia di più al fotografo o al committente?

«Credo che sia necessaria una comunicazione molto chiara tra committente e fotografo. Il cliente deve fidarsi di chi assume. Il fotografo deve ascoltare chi gli commissiona il lavoro e le sue esigenze. Io stringo un patto chiaro con i miei clienti di ritratto: non hanno alcun obbligo di acquisto, possono comprare solo le foto che amano e dopo averle viste. Però bisogna che si fidino di me nella fase di progettazione e di realizzazione del lavoro. La mia è una scelta rischiosa ma che nel tempo ha premiato: le persone che fotografo non hanno alcuna pressione e io mi sento responsabile di consegnare loro le migliori foto che abbiano mai avuto di sè, anche perché, se non comprano, io non guadagno».

La sua carriera professionale è stata fin qui caratterizzata da un’evoluzione e una sperimentazione costanti: quali sono i prossimi orizzonti che desidera raggiungere?

«Sto vivendo un periodo di crisi e per me è sempre stata una cosa positiva. Certo non è divertente quando succede ma significa solo che ho esaurito gli stimoli in un determinato percorso, che sono finita in quella che ora chiamiamo “comfort zone” e che è ora di muoversi di nuovo su terreni sconosciuti. Ora ho il desiderio di rivolgere lo sguardo più verso la fotografia artistica che verso quella commerciale che ha caratterizzato il mio lavoro di questi anni, ma ho anche altri progetti in cantiere».

C’è una foto che sogna di realizzare ma che non è ancora riuscita a scattare?

«Non una ma molte. Ho una mente abbastanza florida dal punto di vista creativo e reagisco molto bene agli stimoli, così tanto che fatico a mettere a fuoco un solo obiettivo per dare il meglio su quello. Ci sono giornate in cui vorrei solo fotografare un fiore, ma in modo diverso dal solito. Altre in cui la mia mente si perde in progetti dal profondo significato sociale. Altre – molte più di quanto si pensi – in cui non voglio fotografare ma elaborare gli stimoli ricevuti e rimetterli in ordine, in silenzio».

Ha mai pensato di dedicarsi all’insegnamento?

«Ho sempre pensato di essere portata all’insegnamento e per questo, pre-pandemia, ho tenuto un corso, insieme alla mia amica Roberta Del Prete, come volontaria presso l’UniTre di Cormòns. Volevo capire quanto immaginazione e realtà coincidessero e devo dire che mi è piaciuto più di quanto credessi. Ora sto lavorando in questo senso e spero di partire con questo progetto entro la fine del 2021».

Da anni la sua ricerca si dedica alla ritrattistica: qual è un personaggio famoso che le piacerebbe ritrarre nelle sue foto?

«Più che famosa, una persona tristemente nota: mi piacerebbe poter fotografare Patrick Zaki, perché vorrebbe dire che è definitivamente libero».

Nei difficili giorni di inizio lockdown ha avviato una raccolta fondi che ha portato nelle casse delle terapie intensive della nostra regione quasi 70 mila euro. Come mai questa scelta?

«Una professoressa dell’Università diceva che nei momenti di difficoltà divento un caterpillar. Anche se mi piacerebbe, non mi rivedo in un cingolato, ma so che effettivamente ho una buona forza di reazione. Ho il reale bisogno di trovare qualcosa di positivo su cui mettere le mie energie quando le cose vanno male. In quei giorni, sull’onda di altre raccolte fondi, ho pensato che fosse una buona idea rendersi utile. Ho quindi contattato quattro amici – Roberta Del Prete, Michele Grimaz, Valentina Sivec e Chiara Marchi – e abbiamo dato vita all’iniziativa. È stato tanto difficile quanto gratificante e utile: non solo facevamo del bene ma potevamo concentrarci su quei numeri invece che su quelli tremendi annunciati ogni giorno alla conferenza stampa della Protezione civile».

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