Doro Gjat

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redazione

10 Gennaio 2018
Reading Time: 7 minutes

Luca Dorotea

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A inizio 2018 il mondo del rap parla friulano. Perché da un binomio che coinvolge due eccellenze di questo territorio nasce un album destinato a far parlare di sé. Quello di Luca Dorotea, per tutti Doro Gjat, carnico di Tolmezzo che con la sua musica la scorsa estate ha conquistato una star internazionale del calibro di Joss Stone. Per registrare il nuovo lavoro, ha scelto gli Angel’s Wings Recording Studios di Pantianicco, realtà all’avanguardia in Europa nel settore, perché «nulla deve essere lasciato al caso», come confida lo stesso artista.

Luca Dorotea, ovvero Doro Gjat. Partiamo da qui: come mai questo nome?

«Negli anni ‘90, quando mi sono avvicinato alla musica hip-hop, il genere non era di tendenza come lo è ora e in Carnia eravamo letteralmente quattro gatti a interessarci a quel suono così particolare e così inusuale per il pubblico generalista di allora. Da qui ha preso il nome il mio primo gruppo, i Carnicats. E io, di conseguenza, ho scelto il nome d’arte Doro Gjat».

Come è nata la passione per il rap?

«Durante l’adolescenza giocavo a basket e non a calcio come invece buona parte dei miei coetanei. Ciò mi ha spinto ad appassionarmi alla street culture afroamericana che da lì, a cascata, ha profondamente segnato tutta la mia esistenza. Ricordo le prime cassette e le prime riviste, e ricordo come tutto ciò mi appassionasse profondamente. Una passione che prosegue tutt’ora».

Quando hai capito che la passione poteva diventare una professione?

«La consapevolezza di poter vivere di questo è un’acquisizione recente, prevalentemente dettata dall’esperienza positiva del mio primo disco Vai Fradi che è stato recepito benissimo dal pubblico. Sul rifiuto della società di riconoscere a chi si occupa di musica o più ampiamente di cultura la qualifica di “libero professionista” ci sarebbe invece molto da dire».

Proviamoci…

«In Italia se fai il musicista sei un fannullone agli occhi di molti, uno che non ha voglia di lavorare veramente ma preferisce stare a casa in pantofole a suonare la chitarra. Io lotto ogni giorno contro questo tipo di pregiudizio e, arrivato a 34 anni con oltre quindici di esperienza nel settore, ho deciso che era ora di buttarsi a pesce in questo mondo e di smettere di nascondersi dietro la consuetudine – per altro superficiale – che questo non sia lavoro ma solo un hobby».

Vivere di arte in Italia è più difficile che altrove?

«Questo non lo so perché non ho mai provato a esercitare questa professione all’estero. In molti dicono che è così e, in tutta onestà, sono tentato di crederci. Tuttavia sono anche sicuro che, se non ti rimbocchi le maniche e non ti dai da fare, non combinerai mai niente di buono. E che tu viva a Los Angeles o a Treppo Carnico fa ben poca differenza».

Qual è il rapporto di Doro Gjat con il suo territorio?

«È un rapporto talmente profondo che a volte sento il bisogno di staccarmene. Però la verità è che non ho voglia di farlo: sto bene in Friuli, ne amo i panorami mozzafiato e la rude gentilezza dei suoi abitanti; amo le vette ricoperte di neve stagliate contro il limpido cielo invernale e amo la skyline di Grado Vecchia baciata dal sole di agosto mentre tramonta; amo il frico e la lubianska, il cotto col kren e i cjarsons, il tocai e la Pelinkovac. E potrei continuare per ore. Quello che è importante dire però è che sto cercando di esportare il mio background culturale, per far sì che il resto d’Italia sappia cosa si perde. Ma non solo: parlo della mia terra anche perché vorrei rompere l’isolamento del Friuli Venezia Giulia, farlo uscire dalla sua isola felice, farlo diventare, per la prima volta nella sua storia, non solo un corridoio tra oriente e occidente, ma un vero e proprio baluardo culturale con una sua identità ben delineata e priva di pregiudizi e luoghi comuni».

Anche per questo motivo nei tuoi videoclip appaiono sempre i paesaggi della Carnia?

«La mia terra è la mia musa e la mia musica suona meglio quando ha il giusto background paesaggistico. Uno dei miei nuovi  brani dice: “di che parlerei se mi rubassero anche i panorami?”».

Hai mai pensato di abbandonare il Friuli per cercare fortuna in luoghi più rinomati?

«Sì, almeno una volta all’anno qualcuno mi ricorda che se voglio lavorare con la musica farei meglio ad alzare i tacchi. Io però sono cocciuto e voglio farcela restando qui, coltivando la mia musica come se fosse il frutto di ciò che mi circonda, la colonna sonora dell’ambiente che mi ha forgiato».

Il tuo esordio artistico risale al 2007, con il gruppo dei Carnicats. Cosa ricordi di quel periodo?

«Eravamo giovani e avventati, pubblicammo un disco bellissimo per i tempi che correvano; un disco che forse era anche troppo avanti e all’epoca non venne capito del tutto. Però una cosa è certa: noi ci siamo divertiti a farlo e ci siamo divertiti ancora di più a suonarlo dal vivo».

A dieci anni di distanza, invece, com’è cambiato Doro Gjat?

«Un artista non è tale se il frutto della sua creatività rimane sempre uguale a sé stesso. Dieci anni dopo mi ritrovo un disco tra le mani che ho appena finito di registrare e che ha ben poco a che vedere con quello precedente, e ancor meno con quelli pubblicati a nome Carnicats. Però un filo rosso che li collega tutti c’è, io riesco a vederlo: è la voglia di esprimersi facendo qualcosa di diverso, qualcosa di personale, che non emula ma che a tratti forse “si ispira” a qualcos’altro, mantenendo una sua identità ben precisa».

Quali sono i messaggi che desideri trasmettere con le tue canzoni?

«Penso che il potere della musica sia quello di riuscire a toccare l’animo dell’ascoltatore sfiorando corde sempre diverse, lasciando che le parole lo guidino in posti inesplorati dove non è mai stato prima. E per fare questo il registro compositivo deve essere variegato, deve toccare argomenti differenti e tutti con la stessa efficacia. È un lavoro tutt’altro che facile, a discapito di quello che dicono i detrattori di chi si occupa di arte a tempo pieno».

Quali sono gli artisti a cui ti ispiri?

«Ce ne sono molti e fare dei nomi è sempre difficile. Dovessi per forza indicarne qualcuno, direi Fabrizio De Andrè per la poetica devastante e la ricerca sonora, soprattutto nelle opere più tarde; e poi Tupac Shakur per il carisma travolgente che ha segnato in modo indelebile tutta la mia generazione».

L’inizio del 2018 vedrà l’uscita del tuo nuovo disco: che genere di album sarà?

«Al momento posso solo anticipare che sarà un concept album, ovvero un disco che ruota tutto attorno a un argomento. Racconta la storia di una generazione cresciuta al cospetto dei monti, che ha passato una vita a cercare il modo di valicarli. Ma spesso sono i limiti mentali, e non quelli fisici, a tenerci legati a un posto; e i limiti mentali sono, per antonomasia, i più difficili da superare».

Nella realizzazione dell’album hai coinvolto molti artisti: com’è stato lavorare assieme a loro?

«Cerco sempre di circondarmi di validi collaboratori e anche questa volta non ho fatto eccezione. Lavorare in squadra per me è vitale, rappresenta uno stimolo non indifferente e coordinare una schiera numerosa di talenti è un onore oltre che un piacere».

La scorsa estate hai collaborato con Joss Stone al No Borders Music Festival a Tarvisio. Cosa ha significato per te l’incontro con un’artista di fama internazionale?

«È stato estremamente stimolante passare con lei e con il suo team quella mezza giornata nella cornice dei laghi di Fusine. Abbiamo chiacchierato e ci siamo scambiati opinioni, prevalentemente incentrate sul senso dell’arte e sul valore che l’ambiente ha per l’ispirazione e per la creatività. Tutti argomenti a me cari».

Molti dei giovani cantanti di oggi vengono lanciati al grande pubblico tramite i talent show: hai mai pensato di partecipare a questo genere di programmi?

«Mai, devo essere sincero. E il motivo è molto semplice: i talent sono dei collettori di performer di altissimo livello ma fare l’artista è un’altra cosa. Si tratta di creare qualcosa dal nulla e ciò ha ben poco a che vedere con il saper interpretare un brano che ha scritto qualcun altro. E io, se posso scegliere, preferisco fare l’artista e lasciar fare il performer ha chi l’artista non lo saprebbe fare. È una questione di ruoli, nient’altro».

Restiamo in Friuli. Il tuo nuovo disco è stato interamente registrato negli Angel’s Wings Recording Studios di Pantianicco: come mai questa scelta?

«Per il mio secondo disco da solista non volevo che niente fosse lasciato al caso. Volevo il massimo della professionalità e il massimo delle strumentazioni. Qui in regione abbiamo la fortuna di avere uno degli studi meglio equipaggiati d’Europa e non ho voluto farmi sfuggire questa opportunità. Monica e Nico poi si sono rivelati estremamente disponibili e sono diventati quasi una famiglia durante il tempo trascorso in studio: abbiamo condiviso gli spazi, il cibo e i ritmi di lavoro per un mese e so che sarà un’esperienza che mi porterò nel cuore molto a lungo».

Dopo l’uscita dell’album quali saranno i tuoi nuovi impegni professionali?

«Sicuramente un tour per promuoverlo che spero mi dia tanto da lavorare. E poi, chissà, magari ci saranno gli stimoli e le opportunità per lavorare a un nuovo disco…»

A proposito di futuro: per un carnico di Tolmezzo, abituato alla concretezza, quali sono i sogni nel cassetto da voler realizzare?

«Vorrei avere la possibilità di sistemare la casa di famiglia a Tolmezzo e trasferirmici in pianta stabile con la mia compagna. E poi, chissà, magari qualche piccolo Doro Gjat che gira per casa potrebbe essere il passo successivo. Ma non poniamo limiti alla provvidenza e, nel frattempo, diamoci da fare con questo nuovo disco!»

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